L'infermiere della Croce Rossa a Bergamo: "Ho visto l'inferno: c'erano morti dappertutto"

È il racconto di un sottotenente in congedo del corpo militare della Croce Rossa. L'uomo lavora al Gemelli di Roma ma è stato richiamato in servizio quando è scoppiata l’emergenza coronavirus nel nord Italia. È stato assegnato all'ospedale Giovanni XXIII a Bergamo

L'esercito porta via le bare da Bergamo (La Presse)
L'esercito porta via le bare da Bergamo (La Presse)

La prima settimana è stata drammatica, eravamo tre per trenta pazienti. La responsabilità era enorme”. Poi aggiunge che a Bergamo di aver visto l'inferno e che "c'erano morti dappertutto".

È il racconto di Angelo Pedone, sottotenente in congedo del corpo militare della Croce Rossa partecipando a varie missioni come in Afghanistan e Mare Nostrum. L’uomo fa l’infermiere al policlinico Gemelli di Roma ed è stato richiamato in servizio quando è scoppiata l’emergenza coronavirus nel nord Italia. Quindi è stato assegnato all'ospedale Giovanni XXIII a Bergamo, vivendo le fasi più dure del contagio. Ora è ritornato a casa e il 23 aprile riprenderà il servizio al Gemelli ma è pronto a ripartire in caso di necessità.

I brutti ricordi

Angelo è rimasto impressionato da tanti aspetti di questa epidemia. Fa l’esempio della “lunga fila di ambulanze in attesa ore davanti al Pronto Soccorso, che non aveva spazio per accogliere altre persone. L'ossigeno che a volte scarseggiava, perché le chiamate erano continue e non c'era tempo di prendere nuove bombole prima di ripartire”. Poi ricorda la luce fioca nei corridoi, il gran caldo e le finestre chiuse senza dimenticare gli sguardi spaventati dei pazienti e del personale sanitario, che sembrava senza speranza ma proseguiva nel loro lavoro senza fermarsi.

Un’esperienza incomparabile

L’infermiere racconta al Messaggero di aver fatto diversi corsi sull’assistenza in operazioni a torace aperto dove il rischio di morire è alto ma quello che ha visto a Bergamo non si può paragonare a nulla. Angelo sottolinea che il turno iniziale è stato il più duro ed era di notte. “Toglievi il casco per dare da bere o un farmaco al malato e questo non respirava - prosegue -, dovevi essere certo di fare tutto velocemente e bene. Arrivavano alcuni soggetti gravissimi, li guardavi e capivi che non avevano speranze”. L’infermiere riferisce che mediamente morivano due persone a turno. Una volta concluso il lavoro si faceva la conta dei decessi. Inoltre, ognuno si chiedeva dove fossero i malati che non si vedevano.

Una situazione molto critica

Angelo rivive i momenti all’interno dei reparti. Dice che era “impossibile” tenere le distanze con i pazienti e che i dispositivi di protezione non erano abbastanza. Basti pensare che al posto delle tute usavano dei camici spessi, che tenevano un caldo insopportabile. Le condizioni di lavoro erano dunque molto difficili. Inoltre, non era possibile dialogare con i malati e con i loro parenti. "I ricoverati sapevano cosa li attendeva, conoscevano tutti i passaggi - continua l'infermiere -, c'era paura nei loro occhi. Non c'era tempo neppure per chiedere chi erano".

Angelo dice le cose sono migliorate nella seconda settimana perchè il personale sanitario ha aiutato i pazienti a chiamare i parenti ma comunque è stata un'esperienza drammatica in cui "da fuori si capisce il 30% della situazione".

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