Ora ci saranno gli strilli perché il Parlamento non è stato abbastanza coinvolto. Magari qualcuno teorizzerà pure un attentato alla democrazia perché il Recovery plan è arrivato appena ieri e le Camere lo licenzieranno in soli due giorni. In realtà si tratta, con tutto il rispetto per la democrazia parlamentare, di una liturgia scontata, se ci si rende conto che siamo alle prese con i tempi di un'emergenza che molti hanno paragonato ad una guerra e chi presenta il piano è un Governo di unità o salvezza nazionale (ognuno usi la formula che preferisce), che è appoggiato dal 90% delle forze parlamentari (un dato che lo differenzia del tutto dall'esecutivo precedente che si basava su una manciata di voti in più al Senato e in ogni sondaggio risultava ben al di sotto del 50% come consenso nel Paese). Motivo per cui il confronto, la dialettica vera, avviene nel governo, mentre il Parlamento è il luogo dove le diverse forze politiche, sia quelle della maggioranza extra-large che quelle di opposizione, marcano la loro identità: l'esame parlamentare, quindi, non serve a modificare le linee del piano ma è esclusivamente una rappresentazione dei partiti ad uso e consumo dell'opinione pubblica. Di fatto, al di là di ogni ipocrisia, nulla di più di un rituale.
Del resto non è la prima volta. Basta tornare con la memoria, visto che proprio l'altro ieri è stato celebrato il 25 aprile, a periodi analoghi della nostra Storia, ai governi della ricostruzione del dopoguerra. A cominciare dal secondo o dal terzo governo De Gasperi (ieri Draghi ha citato ampiamente lo statista democristiano nel suo discorso), quelli espressi dall'Assemblea Costituente: ebbene, all'epoca quei due governi, alle prese con un'emergenza tragica, avevano di fronte un'opposizione capeggiata dall'Uomo qualunque, che aveva il 9,5% in Parlamento; mentre il governo Draghi, addirittura, ora se la deve vedere con un'opposizione ancora più debole alla Camera, visto che conta l'8,1% delle forze parlamentari, guidata da Fratelli d'Italia. È chiaro che la maggioranza composita del dopoguerra stipulava gli accordi dentro il governo nell'interesse della ricostruzione, mentre nell'assemblea Costituente si preoccupava di rimarcare le differenze, perché i democristiani non potevano apparire di fronte al loro elettorato comunisti, e viceversa; come Palmiro Togliatti non voleva essere scambiato per Alcide De Gasperi, e viceversa.
Un po' quello che fa Salvini ora: è maggioranza ma nel contempo si differenzia, i leghisti arrivano addirittura ad astenersi in Consiglio dei ministri (una posizione inusuale che, a ben guardare, dentro il governo non significa nulla), a raccogliere firme in Parlamento, ma sono solo espedienti che puntano a preservare il proprio profilo perché al leader della Lega non passa neppure per l'anticamera del cervello di mettere in discussione la sopravvivenza di Draghi. Il motivo? In una fase del genere si incide solo stando dentro l'esecutivo, non fuori. Se vuoi difendere gli interessi delle categorie che rappresenti devi essere nella stanza dei bottoni. Quello che non ha capito Giorgia Meloni. «Le mozioni parlamentari - ha osservato ieri il leader della Lega a proposito della mozione presentata da Fratelli d'Italia - lasciano il tempo che trovano. Se si apre o si chiude lo decide il governo, non gli ordini del giorno».
Una realtà che riguarda sia l'emergenza sanitaria, che quella economica a cominciare dal Recovery plan. E Salvini non è il solo a pensarla così. «Ma è ovvio!», esclama Vincenzo Amendola già ministro per i Rapporti con la Ue nel governo Conte due e ora sottosegretario agli Affari europei: «Ma quale Parlamento in Europa ha discusso il Recovery plan davvero? Nessuno: la Merkel, ad esempio, lo ha comunicato al Bundestag e lì è finita. Tanto più che da noi il governo può contare su una maggioranza che supera il 90%. Il problema è della Meloni che è rimasta fuori. Un'occasione mancata. Settanta anni fa quella destra non partecipò alla Ricostruzione per ovvi motivi. Oggi è rimasta fuori per qualche punto nei sondaggi. Solo che noi siamo un Paese strano, siamo mogi mogi quando l'Europa ci dà la possibilità di spendere 200 miliardi».
Il leghista Edoardo Rixi ci mette anche una punta di perfidia. «Se la Meloni fosse entrata in maggioranza - confida - sarebbero cambiati gli equilibri e non avremmo già più il coprifuoco. Invece, ora è usata da Pd e 5stelle per mettere in imbarazzo noi». Mentre il sottosegretario alla Difesa, il forzista Giorgio Mulè, è ancora più tranchant: «Non bisognava essere dei geni per capire che in una fase di emergenza come l'attuale le politiche si decidono nel governo e non in Parlamento. Ora la Meloni avrà qualche punto in più nei sondaggi, ma nel contempo non conterà un tubo».
Senza contare che i sondaggi spesso si rivelano illusioni effimere (basta pensare ai 13 punti presi da Salvini in un anno). Lo sono addirittura i voti, basta pensare all'esperienza del già citato Uomo qualunque di Giannini, passato dai 30 parlamentari della Costituente a una manciata di seggi nelle elezioni del '48 senza aver lasciato nessuna tracia di sé: è più importante come usare il consenso che non contare i voti. Purtroppo da noi c'è una classe politica che spesso non vede più lontano del proprio naso. Enrico Letta, ad esempio, è arrivato alla segreteria del Pd puntando tutto sui 5stelle e su Conte o, meglio, sui sondaggi di Conte. Ha immaginato addirittura una riedizione dell'Unione prodiana e rilanciato una legge maggioritaria come il Mattarellum. Nel giro di due settimane, tra il video di Grillo sul figlio e il divorzio tra il movimento e Casaleggio, il castello di carte è crollato. Dato che quella nuova edizione dell'Unione non basta più, punta ad aggregare ora Forza Italia, magari alzando la tensione con la Lega per costringerla ad uscire dal governo. Altra illusione. «Ho tutta l'intenzione di stare nel governo - avverte Salvini - anche se il Pd di Letta ci vorrebbe fuori». La politica è altro.
«Letta guarda a noi e intanto propone il Mattarellum - sospira Mauro D'Attis, coordinatore forzista in Puglia -, non ha capito che senza una legge elettorale proporzionale noi rimaniamo dove siamo». Questa è la precondizione per riprodurre in Italia la maggioranza von der Leyen: elementare Watson, ma non per tutti.
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