Ormai Giuseppe Conte è diventato un oggetto misterioso anche per buona parte di un movimento, quello dei 5stelle, che stenta a vedere in lui un punto di riferimento, una bussola per il futuro. A parte il solito Travaglik che ogni giorno tenta di gonfiarlo, azzardando un paragone impossibile tra lui e Mario Draghi, che si trasforma sempre più nella parodia del nano che vuole gareggiare con il gigante, l'ex premier continua a perdere punti, non riesce a dare un'identità politica né a se stesso, né tantomeno ai grillini che ne cercano invano una. Come al solito galleggia: ma un conto è galleggiare a Palazzo Chigi, dove in ogni caso è la carica a fornirti una figura, un ruolo; un altro è mantenere lo stesso profilo nel mare magnum della politica, in questo caso si va avanti per inerzia, senza una rotta e si rischia di sparire nel tempo.
È il rischio che corre Conte, perché non è detto che un Premier, buono o cattivo che sia, si dimostri all'altezza come leader di una forza politica. In settanta anni e più di storia della Repubblica il «cursus honorum» è stato sempre quello di un capo partito che diventa premier, mai l'inverso: da Alcide De Gasperi ad Amintore Fanfani, ad Aldo Moro; da Bettino Craxi a Ciriaco De Mita; da Silvio Berlusconi a Romano Prodi; da Massimo D'Alema a Matteo Renzi. Gli altri capi di governo o non sono mai diventati «numeri uno» del partito di cui erano espressione, a cominciare da premier longevi come Giulio Andreotti, o chi ha tentato il cammino contrario ha fatto, sempre e comunque, dei buchi nell'acqua: quelli che ci hanno provato finora, hanno addirittura dovuto inventarsi un partito, come Lamberto Dini e Mario Monti, e i risultati non sono stati certo entusiasmanti.
Il problema è presto detto: per avere successo come leader politico devi avere una politica, devi legare il tuo nome ad un disegno, non puoi essere un personaggio, un avvocato d'affari per parlare dell'ex inquilino di Palazzo Chigi, di pura gestione, un equilibrista che ha l'attitudine di tenersi in piedi non con le proposte ma con estenuanti mediazioni. Messa così è difficile, quindi, che la parabola di Conte possa avere un epilogo felice, anche perché il suo interlocutore principale, cioè Enrico Letta, ha un'esperienza simile alla sua: è stato premier e ora deve inventarsi come leader politico. I due alleati, quindi, a ben vedere, sono due difficoltà che si sommano.
Ma se Letta ci prova, si arrabatta, per quel che può (ma anche nel Pd i delusi non scarseggiano), Conte, invece, non riesce neanche a partire. Rischia di essere l'eterno incompiuto, mentre il suo movimento è a rischio implosione. Di Battista e Davide Casaleggio, per metterlo in difficoltà, puntano sulla carta del ritorno alle origini e nello zoccolo duro 5stelle l'accusa al gruppo dirigente del movimento di essere «corrotto» dal potere, come si sa, funziona. Di Maio, invece, ambisce a giocare in grande, tenta di coniugare il grillismo con l'impegno istituzionale, al punto da gettare alle ortiche, almeno a parole, la bandiera del giustizialismo. Così a Conte, senza l'aiuto di Beppe Grillo, ormai in altre faccende affaccendato (i guai del figlio), non resta che arrancare e inseguire gli altri: Casaleggio nelle aule giudiziarie; Di Maio sul piano politico.
Solo che, messo alla prova, appaiono tutti i limiti dell'ex premier che, per dirla tutta in due parole, appunto, è privo di una politica. Se il ministro degli Esteri si intesta una svolta di 180 gradi in tema di giustizia rispetto alla cultura del movimento, Conte non trova di meglio che reiterare la richiesta di dimissioni del sottosegretario leghista Claudio Durigon, reo di essersi lasciato andare a dichiarazioni inappropriate: «Quello della Guardia di Finanza che indaga sui fondi alla Lega è un generale che abbiamo messo noi». Certo si tratta di affermazioni fuori di testa, ma se uno dovesse analizzare tutto quello che è uscito dalla bocca dei grillini, non ci dovrebbe essere più un esponente di governo 5stelle da tempo. Poi, naturalmente, l'ex premier fa la guardia a quell'obbrobrio giuridico che è la riforma della prescrizione che porta la firma dell'ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Insomma, Conte si rifugia in una polemica politica modesta, gioca di rimessa, è sempre in retroguardia, perché non sa che dire, non è sul pezzo. Tanto che lo stesso Di Maio, con i suoi, non se ne preoccupa. «Manco lo vedo avrebbe confidato ai suoi collaboratori , è sempre in coda. Va a rimorchio di Travaglio».
Insomma, l'ex premier Conte prestato alle leadership di partito è alle prese con un problema strutturale. «La realtà si limita a dire Matteo Renzi è che non è capace. È diventato presidente del Consiglio per caso. Un po' come Letta. E ora Conte soffre».
L'ultimo sondaggio SWG per La7 fotografa le difficoltà sia di Conte, sia di Letta: se Lega e Fratelli d'Italia aumentano, Pd (-0,5) e grillini (-0,7) perdono. «La verità spiega Alessandra Ghisleri, che conferma anche lei questo trend è che Draghi sta dimostrando come Conte non sia stato poi granché bravo come premier. Anzi. Ora Lui e Letta stanno pianificando una politica che per avere successo ha bisogno di due anni, se bastano. Ma se si vota il prossimo anno si ritroveranno senza politica e senza voti. In più Conte ha l'handicap che, per mantenere l'indice di gradimento che ha, non deve schierarsi. Deve galleggiare. Come diceva mio nonno, deve stare zitto per dimostrare di non essere totalmente cretino».
Solo che questa stravagante qualità, in realtà, è un limite: il metodo del galleggiamento, della mediazione, del «non esporsi», infatti, è indicato per un premier che necessariamente deve tenere insieme una coalizione, ma non si addice per nulla ad un leader di partito che deve esprimere l'identità della forza politica che guida.
Anzi è un atteggiamento che nel tempo potrebbe rivelarsi letale: perché, tornando al nonno della Ghisleri, se il leader sta zitto, magari non apparirà «cretino», ma potrebbe condannare all'oblio sia se stesso che il suo partito.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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