Martina riportata in carcere: «Amore criminale per il figlio»

Dai giudici parole durissime: «È una madre mossa dall'odio». Il bimbo trasferito in comunità

Lei portata in carcere. Il piccolo Achille trasferito in una comunità per soli minori. Ma madre e figlio potranno continuare a vedersi. Se però questo sia un bene o un male, resta un'incognita. Soprattutto alla luce delle parole - durissime - usate dal tribunale dei minori di Milano per motivare la decisione con cui hanno rispedito Martina Levato a San Vittore, affidando il neonato a una casa-famiglia gestita dai servizi sociali del Comune in attesa che venga ultimata la procedura di adozione del bimbo. Alcune delle espressioni usate dai giudici mettono i brividi. E fugano ogni dubbio rispetto a chi ancora immagina che la vita di Achille possa essere accanto alla mamma. «Martina mossa dall'odio pur sapendo di essere incinta»; «Martina sprezzante sul futuro del figlio»; «Martina non rispetta la vita del nascituro»; «Quel bimbo non è frutto dell'amore». Questa è la realtà, tutto il resto è la fiction di chi si ostina a descrivere Martina e il suo compagno Alex Boettcher come una coppia «normale». Ma qui di «normale» non c'è nulla. Anzi, più si scava nelle loro esistenze e più si comprende l'esigenza di proteggere il piccolo Achille dai suoi stessi genitori. Altro che bimbo «strappato all'abbraccio della mamma», altro che «diritto all'allattamento negato alla madre», come hanno invocato per giorni i cantori buonisti della maternità come dogma; come diritto naturale da garantire a tutti i costi, perché «un figlio può redimere anche la mamma più cattiva». Eccola la demagogia sulla pelle del piccolo Achille: usare le sue carni innocenti per ammorbidire le colpe di chi lo ha messo a mondo.

Ma con che spirito Martina e Alex decisero il concepimento della loro creatura? C'è un passaggio, nell'ordinanza di ieri, che toglie il respiro: «Il loro progetto procreativo e genitoriale non pare espressione dell'amore di due genitori che vedono nel bambino la realizzazione della propria unione, ma sembra essersi sviluppato insieme al progetto criminoso».

Due parole - «progetto criminoso» - che torna spesso nelle parole del tribunale, ristabilendo chi in questa storiaccia è davvero la vittima (il 22enne Pietro Barbini, con la vita devastata dall'agguato a colpi di acido) e chi i carnefici (Martina e Alex che, oltre a Barbini, avrebbero tentato di sfigurare almeno altre due persone).

«Levato - a giudizio del tribunale che ha condannato lei e il compagno a 14 anni di carcere - pur consapevole del proprio stato di gravidanza ha ordito e commesso azioni gravissime, anche con l'uso di sostanze pericolose come l'acido potenzialmente dannose per la propria salute e per quella del bambino che portava in grembo». Una condotta che lascia seri dubbi rispetto alla sincerità con cui, oggi, Martina sostiene di non volersi staccare dal suo bambino. Tanto che non sono pochi quelli che sospettano l'uso strumentale (magari al fine di evitare il carcere ndr) di quel di un presunto «amore materno», di cui però non si trovano tracce nella fase pre-parto della donna.

Ma tutto ciò riguarda il passato, il presente deve essere proiettato sul bene di Achille. Ed è per questo che il «collegio ritiene che la soluzione più rispondente all'interesse dal bambino sia il suo collocamento presso una comunità a carattere familiare».

Contestualmente i giudici hanno disposto che il Comune compia «una indagine sociale sul nucleo familiare anche allargato dei genitori entro il 30 settembre 2015».

In prospettiva l'opzione affidamento ai nonni non è esclusa. Ma l'adozione a una famiglia esterna di resta la conclusione più probabile. E ora, su tutta la vicenda, sarebbe meglio se calasse il silenzio. Speranza vana.

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