Matteo sia premier e non più leader

Matteo sia premier e non più leader

Lo criticano sulle cubiste scosciate? I sondaggi salgono al cubo. L'inno d'Italia in spiaggia non va bene? Gli italiani gli danno un altro mezzo punto. Vestito con la felpa d'ordinanza o con il torso nudo romagnolo, Salvini sembra la controfigura riuscita di quel cantante francese magro e simpatico che si presentò a Sanremo ricordandoci una triste verità: comunque sei ti tirano le pietre. Lui si chiamava Antoine e non Matteo, e non sapeva che un giorno un ragazzo della periferia milanese avrebbe trasformato le pietre in punti di popolarità. A questo punto però la questione si pone in modo davvero serio: perché Salvini non stacca la spina a questo governo surreale e non capitalizza quel quasi 40 per cento dei sondaggi che con qualche piccola alleanza gli permetterebbe di diventare premier? Perché la leadership è una cosa e la premiership un'altra. È una questione di governance che qui cercheremo di chiarire senza scendere troppo nel tecnico. In quanto leader, oggi Salvini non ha rivali. Chi non gli riconosce il capolavoro politico di aver portato la Lega dal 4 al 40 per cento è solo accecato dall'invidia. È un comunicatore strepitoso, parla una lingua che gli italiani capiscono, ha una gerarchia post ideologica dei temi che interessano la gente quasi scientifica. Algoritmi, social o quant'altro, per sentire gli altri in questo modo ci vuole talento. Su immigrazione e sicurezza non ha sbagliato un colpo. E anche l'ultimo concerto al Papeete indica, in termini linguistici, che Matteo ha fatto in politica la stessa rivoluzione che il Big Brother fece in tv: annullare la distanza tra mittente e destinatario, rovesciare i ruoli, annullare la distanza dell'elite per entrare nel corpo del popolo. Se lo volete chiamare populismo fatelo pure, ma a me il termine pare abusato e buono per troppe polemiche. Qui io userei il termine popolare, leadership popolare. La premiership però, come dicevamo, ha bisogno di tutto questo ma anche di altro. Non solo in termini liturgici, abiti, relazioni, incontri, ma in termini di tempo da dedicare all'arte del governo. Cambia anche la prospettiva del consenso, non più il popolo, ma anche gli altri intesi come detentori di poteri, poteri con cui bisogna convivere e dialogare, da Mattarella, all'Europa, all'alta finanza, al Vaticano, alle superpotenze vecchie e nuove. Roba più noiosa di una cubista, ma la vita e la morte passano da lì, come nella cruna dell'ago del maestro Follett. E poi da premier si è soli con le proprie responsabilità, ora il cerino, come si dice a Roma, gira vorticosamente tra le mani di Di Maio, Conte, Tria, Toninelli, e a chi tocca nel turno bullistico dello scaricabarile. Gira così tanto questo povero cerino che sembra ormai l'alito di Mangiafuoco. Poi, ultimo ma non ultimo, il premier deve avere uno staff economico degno di questo nome. Attenzione, la crisi del 2008 non è ancora finita, e gli italiani sui soldi sono volubili. Si passa con velocità dal 40 al 20 per cento. Chiedere a Renzi per conferma. C'è poi un terzo e ultimo ragionamento per spiegare il giallo dell'estate, cioè perché Salvini non rompe e chiede le elezioni.

Io credo che, al di là delle considerazioni da realpolitik, Mattarella che ha nel cilindro Draghi, i magistrati pronti all'assalto, Matteo sia forse un po' spaventato dal grande salto, o addirittura stia provando a rivoluzionare la premiership tradizionale disgregando la sua centralità di potere in una trinità di ruoli, vicepremier, ministro e segretario di un partito. Per quanto tempo e con quali esiti non si sa, si spera solo che intanto non ci rimetta il Paese, l'Italia tutta, che ha bisogno di decisioni urgenti e di una premiership chiara e coraggiosa.

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