C’è un particolare che come spesso capita aiuta a capire tante cose. 4 novembre scorso, va in onda una puntata del “Boss delle cerimonie”. Don Antonio Polese è seduto al tavolo con la moglie Michela per una romantica spaghettata. Lui rivendica con orgoglio che sui tratta del primo barattolo di pomodori della stagione; una chiamata territoriale perché Sant’Antonio Abate, è storicamente una delle capitali del pomodoro e dell’industria delle conserve, ideale confine del territorio metropolitano partenopeo rispetto alla Penisola Sorrentina e all’Agro nocerino-sarnese. Ma torniamo alla spaghettata romantica.
Antonio e Michelina (così la chiama affettuosamente il marito) mangiano gli spaghetti arravogliandoli (avvolgendoli in lingua napoletana) con la forchetta e raccogliendo il sugo con il cucchiaio. C’è un certo mondo napoletano che usa ancora così. Perché il cucchiaio va a raccogliere il sugo ottimizzando così la degustazione del singolo boccone di spaghetti. Non una roba da raffinati gourmet, ma una sobrietà da mondo contadino, quel grande contado napoletano che lo scrittore Domenico Rea indicò come la corona di spine di Napoli e che gli urbanisti chiamano invece la Grande Napoli. Quel cucchiaio testimonia un grande rispetto per il cibo, un desiderio di assaporare al massimo ogni momento della vita e un modo di essere napoletani che resiste a ogni moda, cambiamento o sconvolgimento. Ecco perché la morte di Antonio Polese ha suscitato una commozione che unisce generazioni, territori e anche sensibilità diverse. Perché quest’uomo di 80 anni testimoniava a modo suo un mondo di valori solidi che ci sembra sfuggire come sabbia tra le dita.
Il mondo napoletano, che si produce da sé la musica che ascolta come il cibo che mangia come i riti che scandiscono il tempo, ha bisogno di figure come Don Antonio per rassicurarsi su un’identità napoletana fatta anche di questo mondo antico e conosciuto, quasi un rifugio dalle incertezze odierne. Napoli in questo parla a tutta Italia. Basti leggere i messaggi di cordoglio lasciati sulla bacheca facebook di Polese: Palermo, Cosenza, Bari, Terracina, Isernia, Potenza e così via.
Don Antonio Polese entra così in un pantheon tutto napoletano, di cui fa parte, ad esempio, Concetta Di Palma, al secolo Concetta Mobili, regina incontrastata delle televendite diventata poi una popstar sulle tv locali e poi nazionali (famosa la sua rubrica “I concetti nobili di Concetta Mobili”). Anche lei evocava con la sua sola presenza tutto un mondo, lo stesso di Don Antonio: il matrimonio, la famiglia, due bravi ragazzi che si sposano, ‘na piccerella (cioè la giovane sposa) che ha diritto ad andare a vivere in una bella casa arredata adeguatamente. Anche Concetta era una napoletana del contado, originaria di Santa Maria Capua Vetere nel casertano, l’attività a Casapulla a un tiro di schioppo dal casello autostradale di Caserta Nord. Quando il 24 aprile 2005 un infarto improvviso si portò via Concetta ci fu un cordoglio generale, anche tra coloro che non avevano mai messo piede nel suo mobilificio e magari erano inorriditi dai suoi salotti in “madre-pelle” come diceva lei.
I suoi funerali riempirono il duomo di Santa Maria Capua Vetere di popolo nel senso vero del termine, cioè gente di ogni estrazione sociale. Un tiro da sei cavalli e i violini salutarono l’ultimo viaggio di Donna Concetta. Quel giorno c’era anche Mario Merola, certamente la figura principale di questo pantheon, ma qui dobbiamo intenderci.
Mario Merola è stato un artista interdisciplinare a 360 gradi. I suoi film, girati in esterne indimenticabili, sono una testimonianza storica di com’era Napoli negli anni Settanta. Le sue canzoni hanno rilanciato il repertorio classico napoletano aprendi di fatto la strada a fenomeni contemporanei come Nino D’Angelo prima e tutto il mondo neomelodico in seguito. Anche lui, inizialmente ignorato dalle elites culturali, è stato poi issato a icona pop di un certo meridionalismo. Anche Merola, come Polese e Concetta Di Palma, è stato un napoletano “periferico” perché nello Zappatore, una delle sue rappresentazioni più famose, ha raccontato l’orgoglio contadino del contado rivendicato in faccia a una borghesia cittadina di professioni e posizioni di rendita. In questa dimensione antropologica e territoriale un grande artista come Merola rientra in questo pantheon particolare. Quando la gente assisteva a teatro allo Zappatore piangeva commossa, perché i valori portati sul palco da Merola erano i loro valori, da difendere di fronte a una modernità percepita come ostile.
Un pantheon naturale questo, perché Napoli è un mondo in cui il centro storico è abitato dalla stessa popolazione di 100 anni fa; non c’è stata la gentrification, cioè l’inesorabile espulsione dei poveri in periferia per fare posto ai ricchi. Napoli ha un suo cibo da strada che fa chiudere i McDonald; mi puoi dare tutti gli hamburger che vuoi a un euro, ma se con la stessa moneta posso mangiarmi una pizza a portafoglio, non c’è partita.
C’è quasi una concezione inconsapevolmente ebraica del sentirsi parte del mondo napoletano, inteso come Grande Napoli. Ogni uomo è un mondo, è una pagina di storia irripetibile. Per cui questo pantheon ha anche altri personaggi come Luigi Condurro, ultimo pizzaiolo tradizionale del centro, protagonista del boom della pizzeria “Da Michele” a due passi da Forcella. Oppure Tullio Maddaloni, memoria storica del Calcio Napoli e contestatore feroce di Ferlaino ai tempi del fallimento e della serie B. Uno che recitava le formazioni degli azzurri nei vari campionati come se fossero il Rosario.
È un pantheon di figure care e familiari a molti o a moltissimi. Ma è anche un luogo dell’anima napoletana, un sogno di una venuta al mondo in povertà che però col duro lavoro può diventare ricchezza. Ma sempre senza atteggiarsi (cioè senza darsi arie) perché la cifra di questo mondo resta la sobrietà. Anche in mezzo a mobili che potreste considerare kitsch e con canzoni in sottofondo che non ascoltereste nemmeno sotto tortura. De gustibus, come si dice. Ma un percorso umano rappresentativo di valori come il lavoro, il sacrificio, la famiglia accende in molte persone un’identificazione e appaga un bisogno di sicurezza.
Diceva Concetta Mobili: “Io n' aggiu sturiato, io so 'gnurante, 'a scola mia è stata 'a vita” (“Io non ho studiato, sono ignorante, la scuola è stata la mia vita”. E, perso il marito prematuramente, si rimboccò le maniche e tirò su da sola i figli.Questo pantheon è una parte del mosaico che chiamiamo identità napoletana.
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