“Mia madre è morta. Qualcuno ha sbagliato qualcosa, e io, vivrò con il rimorso di non averla portata dove magari avrebbero potuto salvarla". Ha gli occhi gonfi di lacrime, il respiro affannato e le mani che tremano Sabrina, quando inizia a raccontarci gli ultimi giorni di vita di sua madre, morta dopo essere stata colpita dal batterio killer che sta terrorizzando la Toscana.
“A fine giugno siamo andati all’ospedale di Livorno. Aveva subìto una frattura importante al femore e lì, avrebbero dovuto operarla.” Al pronto soccorso, a Livorno, la situazione non è delle migliori. E l’attesa prima dell’operazione diventa, per la mamma di Sabrina, un calvario insopportabile. “L’hanno lasciata 38 ore su una barella con un dolore lancinante", racconta la figlia. Poi, mille perplessità e cambi di programma. “Inizialmente dicevano che dovevano attendere che si stabilizzassero i valori perché mia madre soffriva di problemi al cuore e altrimenti sarebbe stato rischioso.” Dopo ore e ore mamma Miria viene spostata nel reparto di ortopedia in attesa del giorno dell’operazione. Ma, quando arriva la data fissata per procedere, tutto si blocca di nuovo. “Mi dicono che non si può più operare. Che una donna malata di cuore ha bisogno di un posto assicurato in rianimazione e questo posto non era disponibile”. Intano le ore diventano giorni e Miria inizia a non sopportare più il dolore. “Dopo qualche giorno la operano. Si risveglia in rianimazione, ma in realtà i medici non rilevano nessuna problematica. Mia madre stava bene - dice Sabrina - noi la sera parlavamo con lei tranquillamente, era cosciente e oltre alle normali criticità post operatorie non sembravano esserci ulteriori complicazioni.”
La madre di Sabrina torna finalmente a casa, assistita costantemente dalle figlie e dal marito. Ma, dopo circa sette giorni, accade qualcosa di strano. “Dopo una settimana mamma degenera. Inizia ad avere febbri altissime, dolori e tremori.” Sabrina decide di tornare al pronto soccorso. “Arriviamo all’ospedale e la lasciano altre 24/30 ore in barella. Di nuovo. Da operata.” Poi, i medici decidono di sposatarla in reparto per eseguire i primi controlli. La paziente viene sottoposta ad un tac, ma non viene riscontrata nessuna anomalia. “Effettivamente dopo la tac tutto era risultato a posto. Ma perché non hanno fatto anche un elettroencefalogramma per capire meglio cosa stesse accadendo? Questo io me lo sono chiesto allora e me lo chiedo ancora oggi.” Spiega la figlia che, nella vita, lavora come infermiera in un’azienda sanitaria della sua città. Mamma Miria viene curata come se avesse un infezione urinaria, nonostante, gli esami dell’urinocoltura risultassero negativi. “Un giorno, mentre era in reparto e io lì con lei, mi fece notare che i medici, quando visitavano la paziente che le stava a fianco avevano il camice, la mascherina, i copriscarpe, insomma…come si fa solitamente con chi è affetto da malatti infettive. Io non so cosa avesse la signora, però oggi, se tornassi indietro…vorrei vederci più chiaro”. Ricorda la figlia. La mamma viene dimessa dall’ospedale e, grazie all’aiuto dei familiari, continua le cure da casa. Ma i risultati sono nulli. “Continuava a peggiorare, giorno dopo giorno - ricorda Sabrina - tanto che, il 30 di luglio, andiamo a fare il primo controllo ortopedico e facciamo presente, ai medici, questa situazione.” I dottori spiegano che l’intervento era stato invasivo, soprattuto per una donna fragile come Miria e che, il fisico non reagiva. Non si poteva fare nient’altro.” Una volta tornati a casa le febbri non lasciano libera la donna neanche un giorno e i familiari, visti i peggioramenti, decidono di portarla all’ospedale Cisanello di Pisa.
“A Pisa l’hanno trasferita subito in medicina d’urgenza perchè avevano capito che la situazione era grave. Dopo i primi esami scoprono che, in realtà, quelli che a Livorno avevano scambiato per tremori, erano crisi epilettiche.” Subito dopo i risultati delle analisi però, Miria, entra in coma. La situazione peggiora, minuto dopo minuto. “Il giorno dopo ci dissero che dovevamo andare a trovarla vestiti con i copriabiti bianchi e i guanti, non più di due alla volta, perchè mamma aveva il New Delhi". Racconta Sabrina con la voce rotta dal dolore. Ma, ormai, era troppo tardi e le cure non lasciavano nessuna speranza.
Ora Sabrina non riesce a non pensare al passato: "Ti puoi immaginare come mi sono sentita…come in realtà mi sento ora: impotente. Perché se io, quel sette di luglio, l’avessi portata a Pisa, almeno avremmo provato a lottare. Poi magari non sarebbe cambiato niente. Però avremmo provato a lottare.”
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