"Noi in prima linea". Viaggio nella base che salva le vittime dei talebani

Centinaia a Edolo, ex collaboratori dell'Italia, protetti e curati da Esercito e Croce Rossa

"Noi in prima linea". Viaggio nella base che salva le vittime dei talebani

(Edolo) Quando entriamo nella base logistica, degli oltre cento profughi afghani accolti negli scorsi giorni ne restano soltanto due. Lei ha un velo viola che le incornicia il viso. Si guarda attorno, cercando qualcosa o qualcuno, fino a quando lo sguardo si perde nel vuoto. Assente. Lui, invece, barba e capelli corvini, compulsa ossessivamente il telefono, sperando forse di mettersi in contatto con un parente che non è riuscito a raggiungere il gate per arrivare in Italia. Le dita picchiano contro lo schermo, sempre più veloci, fino a quando si fermano all’improvviso. Impossibile sapere cosa stia leggendo. Tra i monti della Valcamonica, molto più dolci di quelli dell’Hindu Kush, sono rimasti soltanto loro. Sette giorni, il tempo della quarantena, poi il trasferimento in un’altra regione d’Italia. Per una nuova vita, questa volta al sicuro, in un Paese lontano. Senza talebani e senza guerra. “Cerchiamo di fornire un supporto completo”, ci spiega il tenente colonnello Leonardo Mucciacciaro, che comanda la base da cinque anni. “Ci troviamo davanti a una situazione eccezionale, ma la stiamo affrontando nel migliore dei modi, anche grazie al contributo della comunità locale, della Croce rossa e dell’Ats della montagna”.

La caserma, un vecchio monastero del Seicento fatto a balze, si allarga sulla montagna. Una terrazza delimita, per motivi di sicurezza legati al Covid-19, la parte riservata agli afghani. Gli avvisi in persiano, pashtu e inglese ricordano le norme base: “Mantenete le distanze e indossate la mascherina”. Le visite mediche più semplici vengono fatte in un camper adibito a infermeria oppure in una tenda dell’esercito, attrezzata di tutto punto. “Siamo supportati dai volontari della Croce rossa - prosegue il tenente colonnello Mucciacciaro -. A loro è affidato tutto ciò che riguarda l’aspetto sanitario: vaccinazioni e controlli, per esempio. In un caso è stata curata anche una ragazza che aveva riportato piccole ferite su una gamba, che si era infettata”.

Dalla terrazza si osserva il via vai di militari che stanno organizzando l’arrivo di altri cento afghani. Si studia il luogo migliore dove accoglierli e come condurli all’interno della base. Le camere - alcune ristrutturate recentemente da Mucciacciaro, che da giovane ha abbandonato gli studi in architettura per intraprendere la carriera militare - sono state accuratamente sanificate e sono pronte ad accogliere i nuovi ospiti. Si tratta già del secondo turno in due settimane e non si sa quanti ce ne saranno ancora: “Saremo a disposizione fino a quando sarà necessario”.

Ma è il cinema, o almeno quello che normalmente viene utilizzato come tale, ad essere il cuore di tutto. Qui i volontari della Croce rossa si aggirano tra decine di scatoloni contenenti vestiario e beni di prima necessità. “Per arrivare in Italia - ci racconta Mucciacciaro - gli afghani hanno dovuto abbandonare tutto. I più fortunati sono arrivati con un sacchetto, gli altri non avevano nulla. Ora, grazie al supporto della comunità e all’aiuto del sindaco, Luca Masneri, è partita una vera e propria ‘catena umanitaria’”. Un fatto per nulla scontato e che dimostra la sinergia tra il comune e la base militare: “La comunità si è stretta attorno a noi per aiutare queste persone”. E tutto indipendentemente dal colore politico. Grazie al lavoro del sindaco e del comandante, infatti, gli edolesi hanno capito che gli afghani che stavano arrivando avevano aiutato il nostro Paese. Ora è arrivato il momento di ricambiare il favore, come dimostrano le tonnellate di cibo fatte arrivare nella base.

Centinaia di piccole storie stanno passando da questo paese di 4500 anime, dominate dall’Adamello. La grande storia è passata sopra il popolo afghano, travolgendolo e catapultandolo dall’altra parte del mondo. Ci sono famiglie allargate, i cui i genitori sono troppo giovani per avere così tanti figli. Molto spesso si tratta di cugini o parenti affidati a chi poteva salvarsi. Un gesto d’amore che tanti afghani sono stati costretti a fare in questi giorni. Ma c’è anche chi non ha potuto conoscere il proprio figlio.

Come una giovane afghana, salita miracolosamente su un C-130 dell’Aeronautica, che non ha detto, e forse non lo sapeva nemmeno, di essere incinta. Non appena è arrivata in Italia è stata male e ha perso il bambino. Oggi si guarda attorno, cercando qualcosa o qualcuno. Poi si ferma. Assente.

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