"Il pane rubato, la statua mai voluta. Indro dopo 20 anni mi manca ancora"

Sette quotidiani, trenta libri, cinque settimanali - tra i quali Candido e Epoca e un solo, vero, maestro. Indro Montanelli, morto vent'anni fa

"Il pane rubato, la statua mai voluta. Indro dopo 20 anni mi manca ancora"

Giorgio Torelli, novantatré anni (il 26 febbraio, a proposito: auguri), cinque anni di Medicina prima di abbandonare l'università per fare il giornalista («Affrontavo gli esami con disincanto, ma così rimanevo vicino alla ragazza che amavo, lei sì che si è laureata, e ora è mia moglie»), 65 anni di matrimonio, con tre figli, e 67 di carriera. Sette quotidiani, trenta libri, cinque settimanali - tra i quali Candido (1958-61) e Epoca (1971-74) e un solo, vero, maestro. Indro Montanelli, morto vent'anni fa. «E ne ho la nostalgia».

Quando inizi a fare il giornalista?

«Studiavo medicina a Parma, ma la vocazione era un'altra... Allora, erano gli anni '50, non esistevano corsi per prepararsi al giornalismo. Si tentava l'esordio con un quotidiano o un settimanale, che facevano da navi-scuola. Cominciai con La Notte di Nino Nutrizio, scrivendo da Parma: raccontavo dal vero il mondo di noi giovani provinciali... Erano pagine che funzionavano evidentemente. Perché una sera del '54 mi folgorò un telegramma in rima di Nutrizio: Ora la Notte emette un fischio/ Venga Torelli senza rischio/ Firmerà contratto a Milano/ molto lavoro e poco grano. Partii col treno dell'alba andando a vivere a Milano, in una pensione bohémienne. Così cominciai davvero a vivere da giornalista. Durante il servizio militare fui destinato all'Ufficio stampa nel quartier generale del Terzo Corpo d'Armata, a Milano, a Palazzo Cusani. Ma quando ero in libera uscita correvo a dare una mano in redazione, davanti alla Stazione Centrale».

In 60 anni di carriera hai fatto l'inviato speciale per quotidiani e settimanali. Com'era quel giornalismo?

«Sono sempre stato un inviato alla marinara. Vuol dire che navigavo alla scoperta di storie e personaggi... Ho sempre preferito scovare storie che rincuorassero, invece che deprimere, le speranze dei lettori. Il giornalismo deve anche informare del buono che depura il mondo, non solo del peggio sempre in agguato. E comunque, come diceva Montanelli, quando si esce per trovare una storia quel che più conta è tornare in redazione con l'osso in bocca. Beh, quello l'ho sempre fatto».

A 93 anni scrivi ancora tutte le settimane per la Gazzetta di Parma: sei arrivato a 500 pagine domenicali senza un'interruzione...

«Senza ferie, da casa, ma sempre con la foto segnaletica in testa alla pagina...».

Come vedi il giornalismo di domani?

«Non so proprio dove andrà a parare. Io spero rimanga sempre il rapporto sentimentale con i fogli di carta stampata e non solo quello visivo con lo schermo del pc, o dello smartphone... La carta ha un'anima, il vetro è gelido».

Nel 1974 sei tra i fondatori del Giornale. Come hai conosciuto Montanelli?

«La prima volta l'ho incontrato facendone un ritratto per Grazia. Quando Indro firmò sul Corriere della sera l'ironico attacco alla Camilla Cederna invaghita della sinistra, intervistai per Epoca la scrittrice. La Cederna chiamava Montanelli Montaneaux e Toreaux il Torelli che aveva davanti. Indro, dopo aver letto il mio rendez-vous con Camilla, mi spedì un telegramma: Il tuo pezzo è migliore del mio. Non se ne dimenticò. E quando fu il momento mi volle al nascituro Giornale».

E come fu quell'avventura?

«Cominciai a vivere la quotidianità del lavoro in anni - quelli Settanta, del piombo e di piombo - non facili. Avevo Montanelli sempre sotto gli occhi. Lui rimaneva giornalista anche la notte, quando l'insonnia gli suggeriva gli articoli. Erano tocchi di fioretto. Eleganti, implacabili. Non c'era personaggio mediocre su cui mancasse d'infierire. Immagina cosa gli offrirebbe la fauna politica attuale...».

Com'era quando scriveva?

«Si concentrava come se non esistesse nient'altro tutt'attorno. Era come quando passeggiava, e scriveva a mente il fondo che avrebbe battuto da lì a poco sui tasti. Non esisteva niente in quei momenti se non le parole che si allineavano una dietro l'altra. Ogni tanto verificava il già battuto sulla sua Lettera 22 e faceva litigare le mani sotto la scrivania. Poi riprendeva di slancio, posizionando il naso a pochi centimetri dalla tastiera. Se uno di noi entrava per chiedere qualcosa, stranito, alzava la testa un attimo per poi ricadere in trance, per non rischiare di perdere qualche stoccata. Era uno di quei direttori pochi per la verità che teneva sempre spalancata la porta della sua stanza, sia quando eravamo in piazza Cavour sia poi in via Gaetano Negri, al terzo piano».

Un santuario.

«C'era il merlo indiano che gli regalò Angelo Rizzoli e che insultava i suoi ospiti: aveva imparato le parolacce dai fattorini. E fu trasferito d'ufficio. Sulle pareti dello studio figuravano alla rinfusa un quadro del grande sfottitore, altrettanto toscano, Mino Maccari, dono di Pietro Barilla, e un ritratto a carboncino di Guareschi, fatto nel Lager della prigionia dal pittore Beppo Novello, suo compagno di branda. Tutt'e due furono sempre fedeli a Indro. Di Guareschi, ammirato senza riserva, Montanelli diceva: Era più testone di me».

Tu pranzavi con Indro.

«Mi capitava di frequentare con lui le trattorie toscaneggianti, a Milano. Cercava sempre una mensa contadina: le zuppe, i diletti fagioli della sua terra, l'olio bbòno e il pane casereccio, che poi si faceva avvolgere dall'oste per intingerlo la mattina dopo nel caffellatte... Gli sembrava di tornare a casa in Toscana. Vedendogli una tasca gonfia all'uscita della trattoria qualcuno poteva azzardare che avesse addosso un revolver per difendersi dalle minacce ideologiche. Macché. Era un tozzo del pane di Fucecchio avvoltolato in carta da supermarket».

Ma che tipo era?

«Un uomo votato alla scrittura. Un pensatore solitario dallo scetticismo di qualità. Gli piaceva frequentare varia umanità, con richiami intermittenti alla fede cristiana. Una volta ci si era fermati in una trattoria di Bassano del Grappa, diretti a Cortina d'Ampezzo con la mia macchina, lui non guidava sbottò: Te lo dico io cosa farei se credessi. Non me la farei mai contare da quelli che vanno a Messa a mezzogiorno. Ma sarei là, e indicava un punto bianco della parete, tra lo sguardo smarrito dei commensali circostanti incuriositi, sarei là, nel fondo della trappa. Rifletteva: La fede è un dono e pensava a sua madre coi santini sul comodino. Allora, perché a me no? E se un giorno, chissà mai per quale combinazione, mi ritrovassi faccia a faccia con Dio, non esiterei a chiedergliene ragione».

Montanelli e Milano.

«Montaneaux aveva un appartamento romano di gran rappresentanza in piazza Navona. Ma a Milano viveva in piccole camere di hotel, con attorno i libri di saggisti del Cinquecento, Montaigne prima di tutti. Ogni quando, fumava una sigaretta Turmac, quasi da principiante. Vestiva come gli consigliava il gusto di Colette, la compagna della vita... Colette sceglieva tutto per tutto. Era maestra di eleganza, firmando ogni settimana col nome di Donna Letizia una famosissima rubrica sulle ragioni dello stile per Grazia».

Colette, l'amore di sempre.

«Amando Colette, si considerava anche debitore del decisivo sostegno di lei durante gli accessi della depressione esistenziale che ogni tanto lo coglieva. Ogni pomeriggio, durante le vacanze nella casa di Cortina, La Montanella, con vista smagliante delle Tofane, Colette disegnava mentre al piano di sopra Indro scriveva, accanto al fedele cane Gomulka, dono di Colette. Visti in società, Indro e Colette erano belli, longilinei, ammirati e complici. E l'estate del '74, a Giornale appena fondato, decisero di sposarsi civilmente davanti al sindaco di Cortina. E mi chiamarono a testimone».

Il tuo fu un regalo unico...

«Donai a Indro e Colette una croce in smalto realizzata dalle monache contemplative che avevo incontrato, sempre per Epoca, nel campo di sterminio di Dachau. Nessuna di loro era viva ai tempi del Lager. Eppure, s'erano costituite in clausura orante per risarcire Dio, la storia e i superstiti degli orrori subiti».

E della campagna abissina e la ragazzina eritrea che gli hanno riversato addosso l'odio ideologico di tanta Sinistra, cosa sai?

«Montanelli, a 26 anni, come sottotenente comandava una piccola unità di Ascari, i soldati indigeni, allora in ricognizione lungo la valle del fiume Awash, in Etiopia: ci sono stato, conosco i posti e le tradizioni. All'epoca appena attendati, gli ascari venivano raggiunti dalle loro donne, che seguivano la truppa a un chilometro di distanza. Le donne accudivano i loro uomini, poi pernottavano con loro. E pareva singolare che un giovane ufficiale rimanesse sempre solo la notte. Così, secondo gli usi, il padre di Destà fu orgoglioso del fatto che la figlia fosse affidata come compagna all'ufficiale italiano. Non lo decise Montanelli, furono gli usi locali a imporsi. E Destà non fu comprata: ma dato che veniva tolta alla famiglia, come potenziale lavoratrice, il padre fu risarcito economicamente. E comunque Indro teneva incorniciata la foto di lei e dei suoi Ascari nello studio al Giornale. Quando negli anni '50 tornò in Etiopia per il Corriere aveva cercato e trovato Destà, divenuta sposa di uno sciumbasci, un sergente degli Ascari. Uno dei loro figli - così raccontava l'avevano chiamato Indro».

Hanno accusato Montanelli di misoginia e razzismo.

«Ma figuriamoci. La sua cultura liberale glielo impediva. E non dimentichiamo lo scetticismo di Montanelli quando predicava che il monumento 'u si fa neanche al proprio babbo».

Montanelli a un certo punto, con un'iniziativa provocatoria per un foglio laico, ti affidò un commento settimanale al Vangelo della domenica. Come andò?

«Che la cosa ebbe molto successo: 3mila lettere ricevute nei tre anni di durata della pagina».

Si dice che Montanelli si arrabbiasse vedendo che ricevevi più lettere di lui.

«Non lo so... Ma le conservo ancora in un bauletto, per rispetto ai lettori. Indro ne era contento. Diceva solo: Io non sono della partita, sei tu che devi tenere il polso di chi ti legge».

E poi, cosa accadde?

«Il successo produce critiche. Cominciarono, dentro il Giornale, obiezioni del tipo Noi siamo un quotidiano laico e la pagina di Giorgio, pur portandoci lettori, ci storna dalla linea. Non era il caso discuterne. Forse era meglio defilarsi. Dopo 14 anni, nel 1988, lasciai il Giornale. Con rimpianto. Affidai alla segretaria di redazione, la leggendaria Iside, il saluto per Indro».

Dopo un po' l'editore Mursia ti chiese un libro di ritratti, tra cui quello di Montanelli visto da vicino.

«Sì. Scrissi il ritratto e lo inviai per primo a Indro, per affetto. Un'ora dopo, da un fattorino e non per posta, Montanelli m'indirizzò, scritto a mano su carta del Direttore, questo pensiero: Ho letto. E ti ringrazio di cuore.

Vedo con sollievo che il distacco non ha minimamente scalfito il rapporto umano che si era stabilito tra noi e che deve sopravvivere a tutto. Ti rimpiango molto, caro Giorgio. Tuo Indro. Ho incorniciato il rimpianto. E sotto ho scritto: Laurea in giornalismo».

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