«Non andartene docile in quella buona notte, i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al finire del giorno; infuria, infuria, contro il morire della luce. Benché i saggi sappiano alla fine che la tenebra è inevitabile, perché dalle loro parole non uscirono fulmini, non se ne vanno docili in quella buona notte. I probi, con l'ultima onda, urlando quanto splendide le loro deboli gesta si agiterebbero in una verde baia, s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che presero il sole al volo e cantarono, imparando troppo tardi di averne rallentato il cammino, non se ne vanno docili in quella buona notte. Gli austeri, prossimi alla morte, accorgendosi con cieca vista che gli occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire, s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce. E tu, padre mio, là sulla triste altura, ti prego, condannami o benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, non andartene docile in questa buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce».
Sono queste, esattamente queste, le parole che ho pensato quando ho visto mio padre morire nella notte di ieri, e che già da molti anni sentivo come le più vere al momento estremo della morte di un padre. E così è stato. Mio padre ha atteso il giorno per morire. Dopo le grida della notte, si è addormentato e si è preparato, elegante e beffardo, per affrontare il giorno. È morto nella luce, dopo essersi rivelato a me soltanto negli ultimi cinque anni, scrivendo alcuni libri bellissimi in cui ha parlato della sua vita, del fiume, di nostra madre, dei suoi figli. Conosceva molte cose, la poesia era nel suo cuore.
Rimpiango che non ci abbia detto tutto, e abbia portato con sé una parte del mondo che ha visto e che non è riuscito a raccontarci.Michele Ainis me lo ha scritto: «Caro Vittorio, ora sei più solo. Lui era un grande scrittore».
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