Negli anni '90, per rappresentare al meglio il masochismo politico dell'Ulivo, fu addirittura inventato un neologismo, tafazzismo, prendendo spunto da uno strano personaggio in calzamaglia - interpretato da Giacomo Poretti del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo - che adorava schiaffeggiarsi con una bottiglia di plastica gli zebedei. Sono passati più di vent'anni, non c'è più Tafazzi, né l'Ulivo, ma è rimasto quell'innato desiderio di farsi male, appunto il masochismo di sinistra. Una strana sindrome, una malattia nascosta che percorre tutta la storia della sinistra e delle sue molteplici facce nella Seconda Repubblica.
Il culmine di questa patologia sono le primarie. Dovrebbero essere un momento di popolo, per usare un linguaggio un po' datato, e, invece, vanno in scena tutte le contraddizioni, i limiti, le divisioni, le fobie del Pd. Un meccanismo perverso per cui si convocano per contestarne addirittura il risultato ancor prima di svolgerle, dando vita ad una ridda di accuse e controaccuse.
Si parla di tessere gonfiate, come si faceva al tempo della democrazia cristiana. E ancora, si demonizzano ipotetici «intrusi»: Bonaccini azzarda una fila di truppe cammellate grilline ai gazebo in aiuto della Schlein; lei già vede camicie azzurre, verdi e nere, come a sinistra viene descritto il centrodestra, in soccorso di Bonaccini. Per chi poi non fosse ancora contento le primarie possono offrire una radiografia impietosa del Pd attuale: la Schlein, a capo della corrente dei fighetti, a Mirafiori non va oltre i due voti; il governatore dell'Emilia Romagna, per coprirsi a sinistra, con le sue ultime uscite nostalgiche persino del Pci, ha finito per mettere in fuga i riformisti. Per i risultati degli altri candidati - dalla De Micheli a Cuperlo - si rischia un'espressione anonima quanto deprimente: «non pervenuti».
Quindi, un caos, un'autoflagellazione, una coltivazione intensiva di vecchi odi e nuovo rancori che rischia di mettere in embrione una nuova scissione. Almeno se questo grande bailamme servisse a porre le basi di un confronto serio per dare al partito una nuova «identità» (è l'espressione più in voga in questa stagione), un programma, un orizzonte per il presente e magari per il futuro avrebbe un senso. Invece niente: il confronto lascia il posto solo alla zuffa e alle polemiche, con il rischio che il prossimo leader sia scelto da quattro gatti, un numero che servirà solo a certificare il declino del Pd.
A questo punto c'è da chiedersi se valeva davvero la pena darsi una nuova botta agli zebedei, o se invece sarebbe stato meglio, molto meglio, mettere da parte le primarie per marcare una discontinuità e aprire una nuova stagione. La verità è che non era possibile, perché il Pd va avanti per inerzia con le sue liturgie, i suoi costumi che una volta erano la sua forza e ora si sono trasformati nella sua camicia di forza.
Un partito schiavo del suo passato, magari anche glorioso perché ha dato la possibilità agli eredi della sinistra della Democrazia cristiana e del Pci di attraversare indenni le tante ere che si sono rincorse nella geologia della politica. Solo che ora è proprio quel passato a rubargli il futuro.
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