La Storia. C'è da capire perché fu il più odiato, dopo esser stato il più amato. Nel 1993 un futuro docente di Tor Vergata (ne omettiamo il nome per carità cristiana) auspicava questo: «Se lo avessimo fatto a pezzi sul serio, se l'avessimo magari mangiato a brani? Il Paese ne avrebbe beneficiato. Non stavamo facendo altro che il nostro dovere di italiani Il nostro vero errore è stato quello di non andare fino in fondo. Dovevamo sbranare Craxi, avremmo dovuto farlo fuori a pezzi, gettare le sue budella sulla porta del Raphaël e trascinarle fino al Parlamento Come tutti quelli che fanno la Storia, non ho capito che occasione avevo per le mani».
La Storia. All'inizio degli anni Novanta l'insofferenza anticraxiana era crescente. La sua supponenza antipopulista, in un Paese che si stava surriscaldando, gli procurava antipatie crescenti da fronti trasversali, dal Pci alla Lega al Msi. Ma il contrasto più imperdonabile restava quello archetipico con Enrico Berlinguer, figura più dimessa e consolatoria, più consona alla natura quietistica e compromissoria degli italiani «brava gente». Poi c'erano mutamenti più spalmati nel tempo: il sempre citato «crollo delle ideologie» stava progressivamente capovolgendo il totem dell'interesse collettivo per lasciar spazio a un individualismo che reclamava «diritti» ma covava anche risentimento, rispolverando lo storico antistatalismo italiano e la diffidenza per ogni espressione dell'autorità. Craxi aveva compreso il rinnovato ruolo della televisione per ottenere visibilità e consensi l'espansione delle emittenti private fu una sua battaglia ma questo non significa che lui e altri ne avessero compreso subito la portata. La tv, in un battito di ciglia, favorirà una spettacolarizzazione della politica portata all'eccesso, la notorietà a sostituzione del prestigio e dello status, l'immagine che uccide la parola, l'invettiva che accende più del confronto, i talk show che vivono di emozioni e non di ragionamenti, i conduttori che buttano acqua sul fuoco dopo aver appiccato l'incendio.
Il plauso generalizzato che accompagnerà il ruolo di Craxi quale primo obiettivo della rivoluzione all'italiana va tuttavia oltre la sua personalità divisiva, e attiene semmai alle ragioni più sottaciute di chi ne auspicava, dall'alto, la rovina politica. Craxi, anzitutto, era un personaggio che rappresentava ancora una novità per tutta Europa, al punto che molti anni dopo (neanche troppi) le sue riforme entreranno nel pantheon delle principali socialdemocrazie continentali. Per i due moloch italiani, il Partito comunista e la Democrazia cristiana, Craxi era dunque diventato un problema politico enorme: non tanto per i consensi che registrava (il suo Psi non superò mai il 14 per cento) ma perché i risultati dei suoi governi lo candidavano a proseguire là da dove aveva interrotto, con il rischio che la sua condotta minasse le basi elettorali dei due partiti maggiori. È incredibile che a darne conferma, nel 2012, sia stato anche un avversario storico come Carlo De Benedetti: «Io sono sempre stato un suo avversario... Ma è stato un personaggio politico che ha marcato la storia italiana... Il suo primo obbiettivo è stato distruggere l'asse Dc-Pci... Craxi capì che senza i soldi non si fa politica. E dunque cominciò a reclamare soldi in modo palese, spiegando che gli industriali per evitare il ricongiungimento cattocomunista avevano l'obbligo di finanziare l'unico politico che lo poteva impedire. Guardi, ti diceva con il suo modo spiccio, lei di politica non capisce un cazzo. Questo Paese ha bisogno di superare la vera tenaglia di arretratezza economica e culturale che è rappresentata dal ricongiungimento di forze che sono entrambe conservatrici. Ti poteva infastidire per il modo... Ma era difficile dargli torto nell'esigenza di modernizzazione del Paese che esprimeva».
I governi di Craxi avevano sì innalzato il debito pubblico, ma in maniera neppure così rimarchevole: dalla fine del governo Spadolini, Craxi aveva ereditato un debito del 70 per cento che nel quadriennio successivo aveva portato al 92 per cento, ma a questo si accompagnarono scelte calcolate a cui seguì una crescita complessiva del Paese come non si sarebbe più vista. L'Italia che Craxi si ritrovò era fiaccata da tre cose: l'inflazione, la crescita rallentata e una spesa fuori controllo. Se i suoi governi avessero preteso di affrontarle tutte e tre in una volta, non avrebbero avuto prospettive né probabile durata. Craxi, perciò, aveva puntato tutto sulla ripresa economica e sull'abbattimento dell'inflazione, ottenendo risultati indubbi e governando a lungo: del debito pubblico, invece, si sarebbe occupato questo sosteneva con un terzo governo che avrebbe voluto guidare da «candidato unico» dopo le elezioni previste nel 1992. Fu proprio questa sua posizione che, a destra e a sinistra, lo trasformò nell'incarnazione del demonio. Il suo successo anche internazionale spaventava i due grandi partiti di massa: dopo aver reinserito l'economia nei circuiti della competitività mondiale, infatti, Craxi leader dichiarava di voler completare il lavoro muovendosi appunto verso un risanamento della spesa pubblica, con ciò anticipando, a ben vedere, quello che avrebbe poi preteso la Comunità europea. La fine della Guerra fredda aveva rotto il tacito patto partitico che aveva tenuto coesa la Repubblica sin dalla ricostruzione, e che consisteva proprio in un indebitamento progressivo e in continue svalutazioni concertate da partiti, sindacati, corporazioni e infinite categorie assistite dalla culla alla bara. Ora però si affacciava l'ingresso dell'Italia nell'Europa di Maastricht, il che avrebbe significato un netto cambiamento di registro, un freno alle politiche di spesa che avevano garantito a molti italiani una condizione di benessere al di sopra dei mezzi disponibili. Ciò che era necessario, di lì in poi, e che Craxi a parole si candidava a fare, per il sistema partitico equivaleva alla fine del mondo: avrebbe significato erodere lo Stato assistenziale, con cui il Pci tratteneva il consenso dei ceti popolari, e avrebbe significato erodere le risorse con cui la Dc si rapportava alle proprie categorie di riferimento. Per parlar spiccio, avrebbe significato mettere in discussione il sistema pensionistico e l'insostenibile Stato sociale voluto dal Pci, oltre alla diffusa leggerezza che circondava certa evasione fiscale tollerata dalla Dc. Nessuno più di Craxi era legittimato a provarci, e nessuno più di Pci e Dc era interessato a fermarlo. La sua presenza ingombrante, in particolare per la sinistra, fu ritenuta un problema più grave del fallimento mondiale del comunismo.
Dirà Massimo D'Alema molti anni dopo, nel 2007: «A sinistra eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via di uscita: la sua proposta di unità socialista. Come uscire dal canyon? Lui rappresentava la sinistra giusta per l'Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi...
L'unità socialista era una grande idea, ma senza di lui. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il Partito socialista italiano.I risultati dell'operazione giustizialista sono sotto gli occhi di tutti. Craxi è morto in esilio e il Psi non c'è più». È questa la Storia.
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