Perché le divise meritano fiducia

Appena al posto di Arcuri è stato nominato il generale Figliuolo, si è creata la solita - rituale, immancabile - divisione fra bianchi e neri

Perché le divise meritano fiducia

Appena al posto di Arcuri è stato nominato il generale Figliuolo, si è creata la solita - rituale, immancabile - divisione fra bianchi e neri. Da una parte chi esulta per la scelta di un professionista che ha già dato prova d'efficienza e capacità organizzative in un settore così specifico come la logistica, dall'altra chi vede pericoli e fantasmi autoritari, perché quell'uomo è in divisa e pieno di galloni. Chiarito subito che sto con i primi, c'è da capire il perché della diffidenza (spesso addirittura allarme) dei secondi.

In effetti la storia d'Italia non è rasserenante, in proposito. L'Unità venne realizzata con le tre famose guerre d'Indipendenza, non sempre andate benissimo - occorse prima l'aiuto della Francia, poi della Prussia - e che afflissero il nord del paese con lutti e devastazioni. Non a caso l'unico generale amato e popolare nella nostra storia risorgimentale portava una camicia rossa e neanche un grado. Dopo l'Unità toccò al sud: quella passata alla storia (dei vincitori) come «lotta al brigantaggio», fu in realtà una vera guerra civile di indipendentisti - e briganti - meridionali che lottavano per la loro terra, Borbone o no che fossero. Garibaldi, durante la spedizione dei Mille, aveva promesso terra ai contadini, ma il governo «piemontese» non ci pensò neppure: invece della terra arrivano tasse, depredazione delle ricchezze meridionali, un servizio di leva duro e lunghissimo, fino a sei anni. La rivolta fu immediata, spontanea, la lotta spietata da entrambe le parti e stroncata con decine di migliaia di morti, villaggi e raccolti incendiati, carcere durissimo nelle prigioni alpine del nord. Protagonisti della repressione, per ordine della politica, furono i generali, in particolare Enrico Cialdini, cui dopo i recenti studi sulla «lotta al brigantaggio» diverse città italiane hanno tolto l'intitolazione di vie e piazze.

Vennero poi le sconfitte in Africa, nel 1896, Amba Alagi, Macallè, Adua e - il peggio del peggio - le cannonate che il generale Fiorenzo Bava Beccaris sparò due anni dopo sul popolo di Milano che protestava per l'aumento del prezzo del pane, si calcolarono circa 400 morti. La colpa era ancora più dei politici che dei generali, ma la faccia era quella dei generali. Le cose peggiorano nel 1898-1900, quando a capo del governo avemmo il nostro primo militare, Luigi Pelloux, che dovette lasciare l'incarico per le proteste contro le sue leggi liberticide.

Le guerre, nell'immaginario collettivo, se sono vittoriose sono state vinte dal popolo, se sono perdute è colpa dei generali, e così andò anche nella Prima guerra mondiale. Nessuno ricorda o ha tenerezza per Diaz e Cadorna, mentre ci si strugge per i fanti marciti nelle trincee, mandati al macello e accusati di viltà dai superiori per la rotta di Caporetto. Infine, dopo gli anni del consenso, e con la guerra, il fascismo provocò un rigetto verso le divise, una diffidenza generalizzata che aveva come simboli, oltre Mussolini, i due generali contrapposti: Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio. Altro che Coppi e Bartali, Milan e Inter.

Ho raccontato tutto ciò per dovere di storia, in cerca delle origini di un atteggiamento che non ha più ragione di essere. In oltre 75 anni di Repubblica i nostri militari, dalla truppa ai generali, si sono comportati più che bene, in tutto il mondo, tranne le immancabili teste marce che hanno vagheggiato impossibili colpi di Stato e che non hanno lasciato segni. È dunque evidente che la «paura» per il generale al comando viene da prima, dagli episodi che abbiamo appena letto.

Dopo la prova non soddisfacente di un manager pubblico in borghese, è ora la volta di un manager

pubblico in divisa, che tale è il generale Figliuolo, legittimamente nominato da un governo a sua volta legittimato da un'enorme maggioranza parlamentare. Forse ci potrà imporre di stare più attenti, non di stare sull'attenti.

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