La maggior parte dei migranti che sbarcano nel nostro Paese non avrebbero diritto a restare in Italia come rifugiati o titolari protezione speciale o sussidiaria. Lo dicono i dati che arrivano dalle commissioni territoriali e che vengono resi noti periodicamente dal Viminale.
Anche negli ultimi mesi del 2020 le domande d’asilo bocciate sono state la maggioranza: 2.192 su 3292 nel mese di dicembre (il 67 per cento), 2.992 su 4.198 nel mese di novembre (il 71 per cento). Ad ottobre sono state ancora di più: il 74 per cento. La maggior parte di questi provvedimenti, però, vengono impugnati, provocando un vero e proprio corto circuito nelle sezioni immigrazione dei tribunali italiani, dove sono ancora quasi 95mila, secondo un recente approfondimento del Sole24Ore, i ricorsi da esaminare.
Anche i migranti che scelgono di appellarsi contro la decisione delle commissioni territoriali, che in prima istanza decidono chi ha diritto alla protezione e chi no, sono sempre di più, con le pendenze che nel 2019 sono state il 53 per cento in più dell’anno precedente. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, le decisioni delle commissioni vengono ribaltate nelle aule di tribunale. Una tendenza, questa, che, in generale quando si parla di immigrazione, si riscontra anche nelle recenti sentenze della Cassazione.
Lo scorso 8 febbraio, infatti, con la sentenza 2925/21 la prima sezione civile della Corte ha accolto il ricorso di un cittadino albanese, coniugato con una donna rumena, che doveva essere espulso dal nostro Paese. L’uomo era coniugato ma non convivente con la moglie. Motivo, questo, che, secondo il giudice di Pace di Arezzo, rappresentava un’ostativa al rilascio del permesso di soggiorno. Gli ermellini, invece, hanno accolto il ricorso del cittadino extracomunitario affermando come il permesso di soggiorno per motivi familiari possa essere concesso a chi ha contratto matrimonio con una cittadina italiana a prescindere dal fatto che i due convivano o meno.
L’appello dello straniero ruotava proprio attorno al principio che la legge italiana non prevede la convivenza come "requisito oggettivo" per ottenere il permesso di soggiorno. E i giudici gli hanno dato ragione, mettendo nero su bianco che "il requisito della convivenza effettiva del cittadino straniero con il coniuge di nazionalità italiana non è richiesto ai fini del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno". Ma così, si domanda l’avvocato civilista padovano Matteo Mion in un commento alla sentenza pubblicato su Libero, "non diventa troppo agevole stabilirsi regolarmente sulla penisola e poi rivendicare tutela sanitaria gratuita, reddito di cittadinanza e prebende varie?".
Insomma, se la Cassazione non considera "fittizio" un matrimonio senza convivenza, come si fa a stanare i furbetti che contraggono l’unione soltanto per aggirare le normative e poter ottenere i documenti per restare nel nostro Paese, si chiede ancora il legale. La risposta è che ad accertare una fattispecie di questo tipo non debbano essere i giudici ma la Prefettura, rendendo però la procedura piuttosto complicata. In generale, c'è da dire che a chi sbarca sulle nostre coste viene sempre riconosciuta la buona fede. Ovvero, "il dubbio circa la credibilità" si risolve sempre in favore del dichiarante, stabilisce ancora la Cassazione.
Quando si tratta dei nostri concittadini, attacca però Mion, la regola sembra ribaltarsi.
Lo dimostra la caccia dell’Agenzia delle Entrate a chi ha intestato le seconde case ai figli o al coniuge per non pagare l’Imu, considerati "furbetti" e "presunti conviventi". "Quando si tratta dei risparmi dei connazionali per acquistare un immobile – chiosa l’avvocato - lo Stato è intransigente".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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