Portò i supermercati in Italia. E a 86 anni decide di tenerseli

Bernardo Caprotti non concede a suoi eredi la successione per diritto dinastico Chi vuole l’azienda, deve meritarsela. Così l’ha salvata dal figlio (e da Prodi)

Fatta a immagine e somiglianza di Bernardo Caprotti, Esselunga ap­partiene solo a Bernardo Caprotti. Il quale ne è il dominus e «della stessa può disporre nel rispetto delle leggi che gover­nano il Paese». Piuttosto improbabile che qualsiasi persona di buonsenso arrivasse a una conclusione contraria. E infatti così ha sancito il collegio arbitrale composto da tre luminari del diritto - Ugo Carnevali, Pietro Trimarchi e Natalino Irti-nell’anno­sa contesa che vede i figli maggiori del fon­datore, Giuseppe e Vio­letta, opposti al padre in una battaglia giudi­ziaria senza esclusione di colpi per il controllo della catena di super­mercati che fattura 6,6 miliardi di euro l’an­no.
La legge universale che governa le imprese di famiglia italia­ne, pur con qualche eccezione, è inesora­bile: la prima generazione costruisce e consolida, la seconda mantiene e svilup­pa, la terza dissipa e distrugge. La legge specifica che governa Esselunga è che la terza generazione, se vuole ereditare l’azienda, deve meritarsela. Non esiste, nella concezione pragmatica dell’uomo che l’ha creata, la successione per diritto dinastico. Subentra solo chi ha i titoli per subentrare.
Della Manifattura Caprotti, che per oltre 150 anni ha filato il coto­ne fra Monza e il lago di Como, Ber­nardo Caprotti è stato degno ere­de prima in fabbrica, poi come montatore meccanico di telai fra Texas, Maine e Massachusetts, quindi nella tessitura di Mache­rio, dove dovette subentrare nel comando al padre morto all’im­provviso, fino ad allargare il busi­ness alla grande distribuzione, in società (ma solo all’inizio) con Nelson Rockefeller.
Caprotti ci aveva provato a met­tere la sua Esselunga nelle mani della terza generazione. Lo fece 10 anni fa, quando ne erano già tra­scorsi 45 da quel novembre del 1957 che videl’apertura a Milano, in viale Regina Giovanna, del pri­mo punto vendita della Super­markets Italiani Spa, anzi del pri­mo supermercato italiano in asso­luto. Nel giro di 24 mesi s’accorse d’essersi sbagliato: la terza gene­razione stava dissipando e distrug­gendo.
Nel 2002 il timone passò dun­que da Caprotti senior, classe 1925, al figlio Giuseppe, classe 1960, già da due anni vicepresi­dente, che assunse il ruolo di am­ministratore delegato. Ma ben presto si mise di mezzo un polish per metalli preziosi, come raccon­ta il magnate nel best seller Falce e carrello ( Marsilio), che ho avuto il privilegio di veder nascere pagina dopo pagina: «Avevamo sugli scaf­fali l’Argentil a oltre 5 euro, il 30% in più rispetto a tutti i concorren­ti, anche i più scassati,che l’aveva­no a 4. Eravamo diventati l’azien­da più cara del Paese, onusta di co­sti, consulenti, riunioni. Una pac­chia per la concorrenza, alla qua­le avevamo lasciato uno spazio enorme».Oggi il lucidante per ar­genti all’Esselunga si vende, nella versione spray, a 8,19 euro, il che dà la misura dell’aumento del co­sto della vita. Ma è lo stesso Argen­til che al Prontospesa Crai viene 9,89 euro e all’Auchan 9,49, il che chiarisce perché Esselunga vanti il più alto volume di vendite per metro quadrato nell’area dell’eu­ro.
Fu nel 2003 che Caprotti, allar­mato da troppi segnali provenien­ti da fornitori, amici e clienti, do­vette amaramente constatare co­me la gestione aziendale assecon­data dal figlio stesse precipitando Esselunga nel baratro. Peggio: co­me la stesse portando drit­ta nelle fauci dell’odiata Le­gacoop, pron­ta a fagocitar­la col pretesto di non farla ca­dere in mani straniere, sba­razzandosi co­sì
del più te­muto avversa­rio. Ovvia­mente le voci su una possibi­le cessione del gioiello ita­liano a qual­che catena in­ternazionale venivano fatte circolare ad arte. Ma raggiunsero l’effetto desiderato.Tant’è che Ro­mano Prodi, in piena campagna elettorale, un sera arrivò al punto d’annunciare a Porta a porta che l’obbligo morale del governo a ve­nire, qualunque esso fosse, era quello di «mettere insieme» - dis­se proprio così - Esselunga e Co­op, cioè amalgamare acqua e olio: impossibile, come si legge nel Pa­drino di Mario Puzo. Forse spiega qualcosa il fatto che oggi, secon­do la classifica di Altroconsumo, l’Esselunga di via Guelfa sia in as­soluto il supermercato più conve­niente di tutta Bologna, davanti agli ipermercati Leclerc Conad di via Larga e Ipercoop di via della Beverara; meno cara di un 7% del­la Coop di viale Tito Carnacini e addirittura di un 17% del Conad di viale Antonio Silvani.
La spoliazione stava avvenen­do d’estate, mentre il patriarca era stato atterrato da una terribile malattia. Quando a ottobre si rimi­se a fatica in piedi e tornò nel suo quartier generale, a Limito di Piol­tello, sembrava un ectoplasma. Quello che scoperchiò ponendo mano alle miserie contabili ebbe sul suo morale un effetto ancora più devastante della subdola pato­logia con cui si trovava a fare i con­ti. Scoprì l’esistenza di un oscuro giornalista pubblicista di origini siciliane, consulente in Esselun­ga da ben cinque anni, che aveva mandato a gambe all’aria la rete di vendita. Scoprì che un noto ri­cercatore di mercato, incaricato di un’indagine «motivazionale», era riuscito a farsi pagare profu­matamente per esporre la teoria copernicana secondo cui i consu­matori si dividono fra «super­markettisti », che badano alla qua­lità e trascurano i prezzi, e «iper­markettisti », per i quali invece il prezzo è tutto, e la clientela di Esse­lu­nga sarebbe in prevalenza costi­tuita da «supermarkettisti», cosic­ché da quel momento ai piani alti nessuno s’era più preso la briga di monitorare la concorrenza. Sco­prì direttori marketing che con l’ e­commerce
erano riusciti a perde­re 60 miliardi di lire l’anno.Scoprì che il responsabile amministrati­vo aveva sottoscritto «contratti de­rivativi » per altri 60 miliardi.
Su quest’ultimo argomento eb­bi una cortese disputa linguistica con Caprotti durante la revisione del suo libro.Siccome a quell’epo­ca manco capivo bene di che roba si trattasse, mi permisi di osserva­re che sarebbe stato preferibile scrivere «derivati», come faceva­no i giornali. Mi rispose con una lettera garbata, una delle tante che ci scambiammo in quel perio­do: «Che problema questa seman­tica. Il 50% delle parole inglesi vengono dal latino, talvolta vo­gliono dire una cosa diversa. Co­munque “ derivativi” è parola che viene dall’inglese “derivatives”, non dal latino. Così sono chiama­ti nei loro contratti. Sono una tre­menda invenzione nata tra Lon­dra e New York che se scoppia, scoppia tutto il mondo occidenta­le ». E chi lo manda in pensione un profeta di questo calibro, capace d’intuire con anni d’anticipo la crisi sistemica planetaria in cui stiamo annaspando?
Un’altra disputa, più zoologica che semantica, riguardò il sostan­tivo «ratto», che Caprotti aveva usato nel suo manoscritto per qualificare un dirigente incarica­to della gestione di tutti i prodotti deperibili. Alla fine lo convinsi a ri­piegare sul meno brutale «serpe»
nel riferirsi a questa persona cui era stato dato potere di vita e di morte per accantonare, spintona­re, scacciare dipendenti validissi­mi, «talché ai vertici di setto­ri nevralgici l’azienda si ri­tro­vava con in­dividui di alta incompeten­za ».
In
Falce e carrello è nar­rato il modo in cui l’anzia­no ty­coon si ri­solse a liberar­si di questo «ciarpame manageria­le »: «I primi li caricammo, in una bella mattina del gennaio 2004, su delle Mercedes blu, con auti­sta, una per ciascuno. Una cosa di­gnitosa. Anzi, di riguardo. Gli altri uscirono alla spicciolata e solo do­po, dalla documentazione rima­sta, ebbimo la conferma e le pro­ve di chi fossero alcuni di loro. Con uno sforzo enorme ricostru­immo l’azienda. Alcuni quaran­tenni, trentenni, tornarono. Altri furono promossi. Poi - fu solo for­tuna? - nuove validissime figure entrarono a far parte della squa­dra. Oggi è una squadra eccezio­nale ».
È questa la squadra che Bernar­do Caprotti continua ad allenare tutti i giorni. Non gli restano da­vanti molte stagioni agonistiche.
Ma, per quel poco o quel tanto che l’ho conosciuto, credo d’aver capito che deciderà lui, e solo lui, quando e come smettere di gioca­re. Per prenderne il posto non va­le appellarsi al diritto del sangue.

In Esselunga vige ancora il princi­pio che fu enunciato dal Parón per antonomasia, Nereo Rocco: «Palla lunga e pedalare».
Una cosa è certa: non saranno i giudici a esonerarlo. Al massimo può riuscirci solo la vita.

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