Nelle moschee fuorilegge dove si prega Allah

Sette le moschee che abbiamo visitato a Napoli e dieci nei comuni della sua provincia. Tanti i fedeli, per luoghi di culto spesso inadeguati dove il patto per l'islam italiano spesso rimane un miraggio

I fedeli durante una seconda preghiera del venerdì, nella moschea di via Torino a Napoli
I fedeli durante una seconda preghiera del venerdì, nella moschea di via Torino a Napoli

“Nel mio Paese le moschee sono pulite, sicure e c’è spazio per tutti. Queste non sono moschee, ma noi non abbiamo altra scelta”. È appena terminata la preghiera del venerdì. A Napoli, a pochi passi da piazza Garibaldi, in via Carriera Grande, un algerino ci ferma apposta per dircelo. Ha appena ripreso a lavorare. Dice di vivere da 27 anni in Italia. In mano porta due grossi sacchi bianchi. Si rifiuta di rilasciare interviste e di farsi filmare, ma non vuole rinunciare a farci sapere la sua da musulmano. “Com’è andata nella moschea?”, ci chiede. Ma è solo un pretesto per poter esprimere la sua opinione. Poco prima si confondeva tra le centinaia di fedeli che erano accorsi nella moschea di via Torino, una delle sette che abbiamo individuato a Napoli, e l’unica, in città, in cui ci è stato permesso di assistere al rito della preghiera, e senza alcuna necessità di preavviso, ma ad una condizione: entrare al momento della seconda preghiera, quando le sale non sono colme. Africani, bengalesi, pachistani, afghani, arabi, e anche qualche italiano. Erano talmente tanti che straripavano dai locali. Molti di loro vivono in zona o vi lavorano, altri arrivano dalla vicina stazione centrale o dalle fermate degli autobus. C’è chi vi giunge dai comuni della provincia. Abbandonano bancarelle, negozi, bar, laboratori. Chi può non va al lavoro. Entrano in moschea fino a occupare ogni suo angolo. A quel punto le porte vengono chiuse, e chi arriva dopo deve aspettare la seconda preghiera. Dopo qualche contestazione iniziale da parte di qualcuno che era all’interno, senza scarpe e con un velo a coprire il capo riusciamo ad entrare e a documentare la preghiera del venerdì e lo stato dei luoghi. Il presidente dell’associazione, Moh Dhasayen, è un ingegnere, vive a Napoli da molti anni. Non è disponibile a farsi intervistare in video, ma affida a un altro responsabile dell’associazione, Mohamed Khacermi, il compito di rispondere ufficialmente alle nostre domande. Mohamed Khacermi è anche uno degli imam che si alternano per la preghiera, ed è lui che tiene il sermone (tradotto in italiano) in nostra presenza. Ha 56 anni ed è un volto televisivo. Il ‘mago Hamadi’, questo è il suo nome d’arte. “Il nome mago è errato, io sono un prestigiatore. La magia è un peccato per la nostra religione e non è così se c’è il trucco”, precisa. L’associazione è l’unica tra Napoli e i comuni della sua provincia ad essere proprietaria dei locali in cui ha sede la moschea. I suoi responsabili riferiscono che in progetto c’è di acquistare anche una seconda parte dell’immobile che occupano. Come si finanziano? “Esiste un registro dove vengono segnate tutte le persone che fanno della beneficenza finalizzata all’acquisto degli immobili, sono stati riportati lì i finanziamenti. Poi c’è una cassetta dove vengono fatte le offerte, che viene aperta una volta ogni 10-15 giorni”, spiega l’avvocato dell’associazione, Antonio Crisci. Ma non ci è stato consentito di visionare i documenti: “Dobbiamo pure tutelare la privacy – afferma il legale – Siamo pronti a dare qualsiasi chiarimento all’ autorità giudiziaria e di pubblica sicurezza. In questo momento io non posso aprire a chiunque i registri”. L’associazione ha sede in locali che vengono utilizzati come luogo di culto. L’attività prevalente è la preghiera: lo sanno i fedeli che frequentano la moschea, lo dicono gli avvisi affissi fuori, e lo ammettono gli stessi soci che riferiscono anche di attività svolte il sabato per i bambini e le donne. “Si sta facendo di tutto per regolarizzare le destinazioni d’uso, in considerazione del fatto che precedentemente i locali erano adibiti a garage”, dichiara l’avvocato quando gli chiediamo chiarimenti sulla categoria catastale dell’immobile in cui ha sede l’associazione. E a Napoli, come in provincia, le moschee nascono tutte come centri culturali islamici e hanno sede in spazi che, per la categoria catastale di appartenenza, sono destinati ad essere usati come negozi e garage ma, di fatto, sono utilizzati come luogo di culto. Abusivamente, quindi. L’unica eccezione è la moschea di piazza Mercato. Fondata nel 1997 da un gruppo di italiani e di immigrati somali e algerini, si trova in via Corradino di Svevia, uno dei vicoletti che si irradiano da piazza Mercato. ‘Zaid Ibn Thabit” è l’associazione che la gestisce. Il Comune gli ha concesso degli spazi in un ex monastero (prima a pagamento, ora gratuitamente). Per entrarci, e parlare con l’imam o un responsabile, è stato necessario prendere un appuntamento. “Tutto deve essere organizzato, per una questione di spazi”, chiarisce il presidente dell’associazione Abdallah Massimo Cozzolino. Ha appena finito di parlare a un gruppo di liceali arrivato in moschea per una visita organizzata.

Se l’accesso in moschea non è garantito a tutti

Massimo Cozzolino, in qualità di presidente della Federazione islamica della Campania e di segretario della Confederazione islamica italiana, si è seduto ai tavoli con il ministro Minniti. Ha sottoscritto con i rappresentanti di altre associazioni islamiche il patto per un islam italiano. Garantire l’accesso in moschea anche ai non musulmani è uno degli impegni che i firmatari si sono assunti. Ma tra le associazioni che aderiscono alla Federazione che Cozzolino presiede a livello regionale, escludendo la realtà di piazza Mercato (che abbiamo potuto conoscere solo su appuntamento), non tutte le altre ci hanno consentito di entrare in moschea e fare il nostro lavoro. A Poggiomarino si sono barricati dentro con l’impegno di ricontattarci, ma non abbiamo sentito più nessuno. Era già successo a Marigliano, l’anno scorso, dove nessuno dei soci volle rilasciare interviste e ci permise di fare riprese e foto nella moschea. “La chiusura rappresenta un elemento negativo. Il nostro impegno è volto a favorire sempre più quest’apertura. L’importante è che ci sia l’interazione con la società civile e con le autorità”, ha risposto Cozzolino quando gli abbiamo chiesto spiegazioni su chiesta chiusura. “Forse tante volte – ha aggiunto - sono forme di negligenza da parte dei fedeli, delle varie realtà locali. Noi, però, facciamo in modo, soprattutto a livello generale e direttivo, da spiegare e fornire indicazioni anche alle realtà più periferiche di favorire questa forma di apertura”. Gli ricordiamo, però, di aver avanzato richiesta per Marigliano direttamente a lui, ma dice di non ricordare. Alla fine, della moschea di piazza Mercato, abbiamo potuto visitare solo la sala principale della preghiera e l’ingresso. Per il resto sarebbe stato necessario prendere un altro appuntamento.

Le moschee a Napoli si concentrano intorno a piazza Garibaldi, un’area dove vivono e lavorano molti degli stranieri che si sono stabiliti in città, e dove maggiormente trova espressione il pluralismo culturale napoletano. La moschea di corso Lucci è quella storica, ci raccontano. Resta aperta tutta la giornata, a partire dalle 11. Poi segue quella di piazza Mercato. A pochi passi, in vico Soprammuro e in via Lavinaio, ci sono altre due moschee, le chiamano le moschee dei bengalesi. In quella di vico Soprammuro ci è stato impedito di entrare e nessuno ha voluto parlare con noi. L’unica possibilità che ci è stata concessa è stata scattare foto dalla porta. Voltando lo sguardo si osserva la vita di via Nolana: pescivendoli, fruttivendoli, pizzerie, si mescolano con i ristoranti e le macellerie gestite da stranieri. Nella stradina parallela, via Lavinaio, ancora invece resistono i commercianti napoletani. Lì si trova l’altra moschea dei bengalesi. Apre le sue porte solitamente a partire dal pomeriggio. L’imam non sa parlare in italiano, nemmeno in inglese. Impossibile immaginare che possa tradurre il sermone del venerdì in italiano, così come richiede il patto per l’islam italiano. L’unica cosa che riesce a fare è accompagnarci sui tre livelli in cui si divide il luogo di culto, forse il più grande che abbiamo visitato di Napoli e della sua provincia. All’ultimo piano troviamo una decina di bambini a leggere e studiare il Corano e le lingue. A darci maggiori informazioni su quel luogo è il presidente dell’associazione che lo gestisce, Mizanur Rahman. In Italia dal 2001, lo troviamo nel suo negozio di perline per bijoux, a Porta Nolana. Cordiale e disponibile, ci mostra tutti i documenti che ha a portata di mano. Per gli spazi in cui hanno creato la moschea pagano un affitto mensile di 700 euro. Una cifra che, secondo quanto riferisce, coprono con le offerte dei fedeli e con le quote che versano 20 soci dell’associazione.

Moschee piccole per il numero di fedeli

Un pigione più cospicuo, di 850 euro al mese, deve versare invece l’associazione che gestisce la moschea dei senegalesi in via Firenze, e non per occupare un immobile di tre piani, ma un vano di circa 30 metri quadrati con un soppalco, in cui ogni giorno, ad eccezione del venerdì, a partire dal 2008 arrivano a pregare fino a una cinquantina di musulmani. Lo spazio è troppo piccolo per contenere tutti, e quindi la preghiera, quando i fedeli sono troppi, viene svolta due volte. Qui l’imam, Lome Mor, che nella vita fa il venditore nel mercatino multietcnico della vicina via Bologna, nemmeno lo conosce il patto per un islam italiano. Le condizioni di sicurezza e igieniche sono precarie. Quando lo facciamo notare, Omar Ndiaye El Hadj, che è il presidente dell’associazione, risponde: “Per questo motivo c’è sempre qualcuno dentro”. Lui ritiene che per garantire sicurezza basti limitare l’accesso e fare più preghiere. “Noi non siamo contenti di questi luoghi, ma questo è quello che ci offrono. L’Italia è questa”, dice. E ricorda di quando al Comune di Napoli fu chiesta un’unica moschea per tutta la comunità islamica di Napoli: “Quattro anni fa, avevano indicato un luogo dietro la Prefettura, dove sta il mercato del pesce”, chiarisce. E incolpa i giornalisti italiani del fallimento del progetto, accusandoli di strumentalizzazione. “Se il Comune dà la disponibilità alle persone che vivono qua di avere un luogo di culto grande, per noi è benvenuto, perché è quello che chiediamo”, afferma. Poi aggiunge: “Gli italiani devo capire che noi siamo musulmani e che dobbiamo pregare. Se non abbiamo un luogo di preghiera, lo facciamo in strada, in casa”. Dall’esterno nessuna insegna o un cartello indica la presenza della moschea. Bisogna sapere della sua esistenza per andarci. Si trova all’interno di un cortile a cui si accede da un portone che si apre lungo via Firenze. Niente donne e bambini, come nella maggior parte delle moschee che abbiamo visitato tra Napoli e i comuni della provincia: “I senegalesi sono maschilisti, le moglie e i figli restano in Senegal”, spiega il presidente Omar. Poi afferma: “Questo è un luogo di passaggio. Qui vengono principalmente le persone che lavorano per strada. Ci sono persone fisse, che lavorano nel mercato di via Bologna, persone che abitano nel quartiere, le conosciamo e tutti i giorni stanno qua”.

Il patto per l’islam italiano? Cartastraccia

Affrontando la questione del terrorismo islamico, Omar riconosce: “È molto difficile identificare un terrorista. L’unica cosa più facile da identificare sono persone come i wahabiti, ma non è detto che siano terroristi”. E racconta di quando tre anni fa allontanò tre ragazzi arabi arrivati dall’Inghilterra: “Gli dissi di alzarsi e andare via. Qua vieni solo per la preghiera e te ne vai. Nessuno deve fare gruppo e qua nessuno deve parlare”. Un modo, quello di aprire solo per la preghiera, per tenere a distanza soggetti potenzialmente pericolosi ed evitare il rischio radicalizzazione in moschee che, secondo quanto ci raccontano, sono comunque sottoposte a controlli periodici da parte delle forze dell'ordine. “Noi apriamo solo per la preghiera”, dice anche l’imam della moschea di via Spaventa, Muhammad Yaqoob. Un uomo cortese, in Italia con il figlio Hamid da 4 anni, da quando è arrivato a Napoli per fare il capo spirituale a ridosso di piazza Garibaldi. La sua moschea è piccola per il numero di musulmani che vi accorrono: il venerdì, per la preghiera del mezzogiorno, arrivano anche in 700 fedeli, e sono costretti a dividerli in due gruppi di preghiera. “Il locale è difficile da organizzare, perché lo spazio è poco e vengono troppe persone”, ammette l’imam. I fedeli spesso sono di passaggio, diretti alla vicina stazione centrale, o appena arrivati in città, magari a Napoli da turisti. Conoscere tutti, quindi, è più complicato. Comprendere se qualcuno possa essere pericoloso diventa quindi impensabile. Allora, terminate le preghiere, la porta dell’associazione chiude. “Il rischio radicalizzazione lo viviamo quotidianamente e rappresenta una seria minaccia per tutti noi. Quindi occorre avviare all’interno dei luoghi di culto un’opera sensibile di apertura, di interazione, innanzitutto con le istituzioni. Poi essere chiari nel condannare qualsiasi forma di radicalizzazione, violenza e odio”, ha dichiarato il presidente della Fic, Abdallah Massimo Cozzolino. Contrastare i fenomeni di radicalismo religioso è uno degli impegni che si è assunta la comunità islamica siglando il patto per l’islam italiano. Dieci le istituzioni che a febbraio del 2017 lo hanno firmato al Viminale, quelle maggiormente rappresentative della comunità islamica nel nostro Paese. Ma quel patto, che non tutti conoscono, molto spesso nella realtà viene disatteso. La traduzione del sermone in italiano è talvolta impossibile: in certi casi gli imam sanno parlare solo nella loro lingua di origine. “Assicurare massima trasparenza nella gestione e nella documentazione dei finanziamenti” è uno dei punti cardine del patto, ma la donazione volontaria e anonima da parte di chi entra in moschea ci dicono che rappresenti la principale, se non l’unica, forma di finanziamento. Poi non sempre viene garantito l’ingresso nelle moschee ai non musulmani: a noi, oltre che in vico Soprammuro a Napoli, non è stato permesso di entrare in due di quelle che si trovano in provincia di Napoli, in via Trieste a Palma Campania e nel comune di Poggiomarino, dove il sindaco, Pantaleone Annunziata, che riferisce di non avere contezza degli stranieri presenti nel Comune che amministra da 7 anni, afferma: “La moschea non c’è a Poggiomarino”. Ma nei garage di via Rossini si entra quasi esclusivamente per pregare, ce lo confermano il proprietario dei locali, i vicini e i musulmani di Poggiomarino e di tutto il circondario, che ci dicono anche che è la più vecchia tra tutte quelle presenti in zona.

La costellazione di moschee in provincia di Napoli

In provincia di Napoli le moschee si trovano nei comuni dove maggiormente si sono insediati gli immigrati. A Palma Campania, comune di circa 15mila abitanti, si contano fino a 6 mila stranieri, quasi tutti bengalesi, e a ridosso del centro ci sono ben tre moschee a distanza di pochi chilometri. Una si trova a due passi dal Comune, in via Municipio. Ci accompagna nella sua sede un bengalese che incontriamo per strada. Fuori, la moschea non è riconoscibile. Il vano usato per la preghiera è angusto, così come nella moschea di via Marconi, a un paio di chilometri di distanza, dove sorge in un immobile con due stanze la cui porticina anonima si apre in un cortile. Sono locali che dovrebbero ospitare negozi o botteghe, come confermato da fonti comunali, invece sono usati come luoghi di culto. In via Trieste, la situazione è la stessa, con la differenza che non ci hanno fatto entrare. “Quella è una moschea, ma devi tornare più tardi, intono alle 19”, ci riferiscono la mattina. La stessa persona, quando ritorniamo, nega che in quel posto ci sia una moschea, non ci permette di entrare se non all’ingresso, poi ci dice di aspettare alle 19,30. Ma dopo non arriverà nessuno. “Qui solo preghiera”, assicura uno dei fedeli musulmani in cui incappiamo all’esterno. Intorno a lui si forma un capannello di bengalesi. “Tra di loro c’era l’imam”, poi ci svelano. “Prima il venerdì c’erano oltre 300 persone dentro e 200 fuori che aspettavano. Abbiamo segnalato al Comune, hanno fatto i dovuti riscontri, hanno visto che questo locale non è luogo di culto ed è stato anche chiuso, l’anno scorso. Da un anno il venerdì vanno a pregare nello spazio antistante la caserma dei carabinieri. Ora non è più come prima, ma si usa sempre come luogo di preghiera”, racconta Giuseppe, il titolare del chioschetto che sovrasta l’ingresso della moschea. “Se rimani qua – è il suo consiglio - ti renderai conto che questo è un luogo di culto”. Nel vicino comune di San Gennaro Vesuviano, gli abitanti sono quasi 12 mila e le moschee sono due e si trovano a distanza ravvicinata, in via Nola e in via Napoli. Nella prima riusciamo a fare ingresso solo dopo un po’ di resistenza iniziale da parte dei bengalesi che ci accolgono. Le condizioni igieniche e di sicurezza in cui versano questi luoghi di culto sono precarie. Posti frequentati da decine, centinaia di persone (anche bambini), senza nessun estintore, nessuna indicazione per uscite secondarie, con gli interni fetidi. In via Nola qualcuno riferisce che il venerdì, quando sono in tanti, pregano anche in un probabile scantinato, che però non ci è stato mostrato. A San Giuseppe Vesuviano abbiamo trovato la moschea più dignitosa e meglio organizzata della provincia di Napoli. La più aperta e disponibile a raccontarsi. Senza indugiare un attimo, Dino ci ha aperto le porte. Marocchino, 23 anni, in Italia da una decina di anni, dice di studiare lingue all’Orientale di Napoli. Si presenta esclusivamente con il suo nome italiano. Non vuole essere immortalato in foto e video, come la maggior parte dei musulmani che abbiamo incontrato, ma ci guida senza problemi nel suo mondo, nella moschea gestita dall’associazione di cui dice di far parte come dirigente. “Abusivo non è un termine che mi piace”, commenta stizzito quando parliamo dell’utilizzo abusivo dei locali come luoghi di culto. “Qui facciamo anche altro”, sottolinea. E al piano superiore, mentre parla, si dirigono donne e bambini per i corsi di lingua che organizzano con l’associazione Nuova Koinè di Marigliano. “Qui non esistono correnti, siamo sunniti e basta”, risponde quando gli chiediamo del movimento di pensiero islamico nella moschea. Nessuna riluttanza a mostrare la loro realtà anche nelle due moschee di Giugliano in Campania. In via Antimo Panico l’imam, Mohammed Mohmoud, che a Giugliano fa il fabbro e il venditore ambulante, appena arriva ci fa entrare e ci offre di partecipare alla preghiera delle 17. La moschea che guida è nata 8 mesi fa ed è poco distante dalla prima, sorta quattro anni prima nel rione Marconi del popoloso comune a nord di Napoli. Perché una seconda moschea? Sostiene che sia una questione di spazio: i fedeli erano troppi per un’unica moschea. Un’altra moschea si trova nella frazione di Licola, ai confini tra i comuni Pozzuoli e Giugliano, località dove il 20 aprile scorso fu arrestato un presunto terrorista, Alagie Touray, 21enne del Gambia richiedente protezione internazionale. Alloggiava in uno dei centri di accoglienza della zona. Alcuni musulmani ci hanno parlato della presenza di moschee anche nei comuni di Sant’Antimo, Marano e Afragola.

Comunità islamica divisa a Napoli

Le sedi in cui gli islamici si riuniscono per la preghiera spuntano come funghi, ma nella maggior parte dei casi risultano inadeguate. La loro proliferazione è anche espressione di una divisione interna alla stessa comunità islamica, come ammettono alcuni dei responsabili che abbiamo incontrato a Napoli. Qualcuno lo ha fatto a microfono spento. Invece, Mizanur Rahman, della moschea di via Lavinaio, ha raccontato apertamente il motivo per cui è saltato il progetto di aprire un’unica grande moschea per tutti i musulmani a Napoli in un struttura individuata vicino alla Prefettura : “Quattro anni fa sono stati chiamati dal sindaco tutti i musulmani. Ci siamo seduti, abbiamo parlato insieme per decidere chi doveva fare da imam, responsabile. E loro non hanno dato la moschea. Ma tutte le persone non erano d’accordo”. Sostiene che gli “arabi volessero avere la responsabilità di tutto” e che questo sia stato il “problema unico”. Poi commenta: “Non è giusto, perché dobbiamo fare tutto tutti insieme”. “A noi – conclude – piace pregare tutti insieme, e non che ci sia una moschea di qua, una di là”. Ma sembra che, per ora, l’idea di avere un’unica moschea, più spaziosa e idonea per professare il culto, sia ancora lontana.

E non si può pensare di garantire la libertà di religione e di contrastare i fenomeni di radicalismo religioso, mentre ci sono molte moschee che nascono in luoghi inappropriati, talvolta versano in condizioni pietose, e con un patto che nella realtà diventa cartastraccia, in un Paese in cui l’Islam rappresenta la seconda religione per numero di fedeli.

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