Per anni, gli italiani, negli uffici e nei negozi, sono stati accolti dalle parole di Luigi Einaudi, presidente della Repubblica dal 1948 al 1955. Sulle pareti era incorniciato, come fosse un manifesto, un passo del discorso Dedica all'impresa dei Fratelli Guerino di Dogliani pronunciato da Einaudi nel 1960. Ecco cosa diceva: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi».
Ieri si sono celebrati i centocinquant'anni dalla nascita del grande economista, esponente di spicco del pensiero liberale. Tra le iniziative più originali, si è segnalato il dono dell'Istituto Bruno Leoni a chi ne facesse richiesta: un quadretto con il discorso appena citato. Leggere le parole del presidente Einaudi, purtroppo, ci fa capire quanti passi indietro abbiamo compiuto nella concezione della libertà. Einaudi aveva firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti, il suo nome era il terzo, dopo Benedetto Croce e Giovanni Amendola. Il presidente ci condusse fuori dagli anni del Regime con la sua autorevolezza e con la sua opzione decisa per l'europeismo come garanzia di crescita e di pace nel martoriato Vecchio continente. Oggi siamo ancora immersi nel grottesco dibattito fascismo-antifascismo, in assenza di camicie nere; e l'Unione europea, per come è, ha deluso e delude anche chi la reputa sempre più indispensabile in un mondo di grandi potenze regionali.
C'è di molto peggio. L'imprenditore e il libero professionista, per il sentire comune, sono evasori; la ricchezza è indice di cinismo e immoralità; la proprietà privata, oltre un certo limite, è considerata un furto; la redistribuzione delle risorse (altrui) è il sogno non proibito dei nullafacenti; le tasse sono bellissime anche se sprecatissime; lo statalismo e la sua montagna di scartoffie sono benedetti come irrinunciabili garanzie di imparziale giustizia; la libertà economica non è più sinonimo di libertà civile. Decenni di egemonia culturale comunista e di governi assistenzialisti hanno prodotto il risultato che abbiamo davanti agli occhi: un Paese immobile, in perenne attesa di soldi pubblici che non ci sono più da un pezzo.
Abbiamo, come ultima occasione, i fondi europei del Pnrr da spendere con oculatezza, per aiutare chi produce davvero e creare infrastrutture utili a tutti. Ora più che mai abbiamo bisogno della lezione di Luigi Einaudi. Ma qualcuno è disposto ad ascoltarla?
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