Federico Buffa ha inventato un modo di fare il giornalista che, almeno in Italia, non avevamo ancora visto. Storyteller o narratore, che dir si voglia: lo stile che ha il giornalista milanese di raccontare ha ormai coinvolto milioni di telespettatori e non solo.
In questa intervista "A tu per tu", l'"avvocato" - come lo chiamano i suoi fan più sfegatati, in specie quelli legati al mondo cestistico - spiega come sarà, dal suo punto di vista, il futuro della professione giornalistica ma non solo. Buffa, raccontandosi a IlGiornale.it, compie un viaggio completo, tra la sua giovanile militanza politica, con i diritti civili a fare da centro focale, gli ultimi viaggi, con la situazione sociale cilena vista da vicino, gli ultimi progetti, con l'incontro tra gli "introversi" Gigi Riva e Fabrizio De André, e molto altro. Un accento non poteva che essere posto sull'epopea del Milan targato Silvio Berlusconi. Ma Federico Buffa è - come sempre - un fiume in piena.
Studi sociologici negli Stati Uniti, padre psicoterapeuta e madre milanista. Quale tra questi fattori ha influito di più sulla sua carriera e come?
"In ordine d'importanza, due, uno, tre. Mio padre è stato decisivo nella mia vita: conflittuale ma molto stimolante. Il fatto che mi abbia regalato questo soggiorno presso l'Università di Los Angeles, dopo l'esame di maturità, ha decisamente orientato la mia vita. Se io fossi andato altrove, soprattutto non a diciotto anni, difficilmente avrei sviluppato così tanta passione per il mondo americano, che ha inciso molto sulla mia vita. Facciamo che per i primi vent'anni - in pratica - è stato il centro della mia vita. E la passione sportiva di mia madre ha influenzato il mio tifo sportivo, però non è stata così determinante. Gli altri due sono stati più determinanti".
Il libro preferito di Federico Buffa è sempre "Ore giapponesi" di Fosco Maraini? Mi risulta sia stato affascinato dall'utilizzo che Maraini ha fatto degli aggettivi in quell'opera...
"Assolutamente sì. Le aggettivazioni di un toscano, letterato come Maraini negli anni cinquanta, ci fanno capire quanto ampia sia la lingua italiana e quanto desueta sia diventata. Leggevo su un giornale in queste ore: si ritiene che uno studente italiano degli anni settanta conoscesse, più o meno, milletrecento parole. Oggi, quel numero di parole, potrebbe essere molto ridotto. Quindi, ogni volta, consiglierei: fatevi un giro su Maraini. Prendete una pagina a caso e guardatevi il numero di aggettivi. Non ce n'è mai uno uguale per varie pagine. Il che specifica ciò che uno voglia dire con una progressione perfetta".
La storia di Maraini in Giappone è anche una storia di fragilità. Buffa, sulla fragilità, basa il suo ultimo spettacolo. "Amici fragili", l'incontro tra Fabrizio De Andrè e Gigi Riva. Due personaggi molto diversi?
"Hanno più cose in comune. Sono due introversi che utilizzano il silenzio e che hanno una sensibilità fuori dalla norma. Sono due artisti che hanno una visione della solitudine come un beneficio e non come una limitazione. Li trovo molto più vicini di come si possa pensare. La grande differenza riguarda la loro crescita: uno è il figlio della miglior borghesia genovese, l'altro è il figlio di un operaio che si salva da tre guerre ma che, tornato dall'ultima, muore pochi anni dopo per un incidente sul lavoro. Questo cambia Luigi, che poi perde anche la madre. E anche questo segna la vita di Riva. La famiglia di Fabrizio è più solida e la figura paterna è determinante. L'ispirazione di Fabrizio, però, è talmente avanzata che Luigi, che non ha gli stessi mezzi espressivi, ascolta "Preghiera in Gennaio", che è il pezzo composto da De André, tornando dal funerale di Luigi Tenco. Tenco è un artista di cui Riva teneva ossessivamente dei ritagli. Gigi Riva non ha mai tenuto niente su di sé, ma ha tenuto ossessivamente ritagli su Luigi Tenco e su Lorenzo Bandini, che era un pilota di Formula Uno della Ferrari. Uno sportivo morto giovanissimo. Il che mi fa pensare che avesse l' idea che potesse succedere anche a lui di morire presto. Comunque, quando sente quella canzone, Riva pensa che sia la cosa più bella che sia mai stata scritta sull'amicizia. Comincia a sentirla in maniera ossessiva...".
Quindi arriva l'incontro...
"I suoi compagni di squadra gliela sentono cantare e vedono che la ascolta tantissimo. Uno di questi, che si chiama Ferrero, l'anno successivo, ossia l'anno in cui il Cagliari vincerà lo scudetto, gioca nel Genoa. Chiama Riva e gli dice: "Guarda che Fabrizio De Andrè, che tu ascolti così tanto, è talmente appassionato di Genova che noi lo sentiamo, lo vediamo.... . Io se vuoi ti organizzo un incontro". Proprio quello che succede quel giorno di settembre del 1969: la prima e l'ultima volta che i due si vedono. Quindi, dovendo scegliere un titolo assieme a Marco Caronna, che è il regista, che ha partecipato molto alla scrittura, che canta, che suona e che recita anche una scena, abbiamo pensato che tutto sommato "Amici fragili" potesse essere un tema che, nonostante le apparenze, li accomunasse".
Gigi Riva rimanda all'epica italiana. Lei dice spesso che nella cinematografia italiana manca un certo grado di patriottistmo. Riva, ad esempio, è un mito fondativo del Belpaese. Gli spettacoli di Federico Buffa riempiono un vuoto. Ne è consapevole o il mio è un elogio sperticato?
"Un elogio sperticato. Però io penso che il passato sia un tesoro. Il passato è un principe. Questa contemporaneità che si dimentica di quello che è successo di recente, giorni fa e mesi fa, si crea secondo me un problema. Questa idea di guardare sempre avanti e mai all'indietro ci fa perdere tante cose. E quindi, siccome lo sport è un veicolo facile perché, essendo l'Esperanto del mondo, risulta semplice portare indietro le lancette della storia, diventa un modo anche per approfondire cose che, fatalmente, oggi, non si approfondiscono più. Lo sport è un grimaldello senza pari per poterlo fare".
Frank Rijkaard, Ruud Gullit, Marco Van Basten: cos'è stato per Federico Buffa il Milan di Silvio Berlusconi?
"Come avrebbe detto mia madre: "Uno spasso". Quando senti un milanista parlare... . Fai conto di metterti in ascolto di un milanista senza essere visto (sia l'intervistato sia l'intervistatore sono milanisti, ndr). e di sentir dire: "Hai visto il derby? In fondo però i nostri, qua e la... ". Poi una pausa ed il discorso del milanista riprende: "Certo, siamo abituati bene, però... ." Ecco, è tutto in quel "però". Risulta incredibile come il Milan abbia passato un periodo così lungo, successivo a tante vittorie, senza avere una squadra in grado di vincere: è considerato obiettivamente improbabile (Buffa fa capire che la stagione in corso sia buona per vincere lo scudetto, ndr). Pongo un accento sulla facilità che ha il tifoso rossonero - almeno quello di una certa età - di andare intenzionalmente indietro: la prima squadra che incontri è quella del 2011, ma poi vai chiaramente alle due Champions: quella del 2007 e quella del 2003. Le due che segnano il millennio del Milan sino ad ora. Hai voglia di andare lì. Poi, alla fine, tutti vanno alla squadra della fine degli anni ottanta. Perché - in maniera oggettiva - il Milan non aveva mai giocato così. Mia madre, una riveriana assoluta, mi diceva: "Questa squadra... . ". Soprattutto Van Basten la faceva impazzire. Se non altro perché coniugava forma e funzione come nessun giocatore avesse mai fatto. Ne aveva visti tanti mia madre eh: ricordava Gren, Nordhal, Liedholm...".
Poi c'è la nazionale italiana: a marzo siamo condannati alla vitoria. A Buffa piace la nazionale di Mancini?
"Io penso che la nazionale di Mancini sia una nazionale ben allenata e, soprattutto, che i giocatori sappiano quello che devono fare. C'è un particolare fondamentale: trovo un po' difficile comprendere l'espressione "bisogna ritrovare la spensieratezza di Londra". Eh no: la spensieratezza di Londra era dovuta al fatto che non dovevano vincere. Erano lì, nessuno gli chiedeva di vincere e giocavano con una leggerezza meravigliosa. La stessa che raddoppiava le qualità della squadra. Non puoi dire "tanto adesso siamo spensierati". Tutt'altro: giocheranno con una tensione spaventosa addosso. L' avevano già nelle ultime due partite. Un conto è giocare con la testa sgombra, un altro giocare con una testa che è tutt'altro che sgombra. La forza di questa estate stava nella spensieratezza. Adesso sono nella situazione opposta. In ogni caso, trovo sia una buonissima squadra: quella costruita ed allenata meglio nell'era moderna".
Per un fenomeno sportivo in chiaroscuro, ce n'è uno che sta tornando a bomba: mi riferisco ai Golden State Warriors. Primi nella loro conference dopo anni di difficoltà. Stephen Curry non si racconta più...
"Bravo. Hai detto bene. Dopo aver visto l'ultima partita di ieri sera, penso sia complesso trovare degli aggettivi, perché giocano talmente spesso che fai veramente fatica. Devo dire la verità in merito. Sulle difficoltà? Ne hanno avute tante. In questo momento sto vedendo un documentario su Tutankhamon e sulla sensazionale scoperta archeologica di Howard Carter. Quella che peraltro ha creato la egyptianmania. Negli Stati Uniti, esistono centinania di teatri costruiti come tombe egizie. Sono teatri edificati tutti attorno al 1925, proprio per via della scoperta di quella tomba e di quel tesoro. Qualcosa che ha fatto impazzire gli americani. Sennò non ci sarebbe un'altra spiegazione. Chiaramente c'è una maledizione dovuta al fatto che qualcuno - qualche tombarolo, come si direbbe a Roma - porti Carter a parte del tesoro che era accanto al faraone. E io penso ci sia stata una sorta di maledizione anche sui Golden State Warriors".
Un altro suo progetto, che è poi quello per Sky, riguarda la Coppa Davis del 1976. Il Cile è un Paese complesso in cui si è votato da poco. Torna qualche spettro del passato...
"Qualche? Qualche?! Il Cile è l'ultima meta dei miei viaggi transcontinentali. L'8 marzo del 2020 sono a Santiago e mi ritrovo all'interno di una giornata che non potremmo avere da queste parti. L'8 marzo è l'8 marzo in tutto il mondo ma, in Cile, si erano riversate due milioni di persone. Almeno un milione e mezzo di donne: c'era una tensione spaventosa. Mi ricordo che un poliziotto mi disse: "Si vede che lei non è un cileno. Le consiglio, dalle 16.30-17.00, di tornare in albergo". Ecco, vado in albergo, tra l'altro accendo la televisione e c'è Juventus-Inter, due a zero in un paesaggio spettrale, perché non c'era il pubblico, e intanto sento che fuori sta succedendo di tutto. Sono passati quasi due anni. Di sicuro, l'impeachment al loro presidente è qualcosa che potrebbe avere anche un senso. Ma il Cile è un Paese spaccato in due esattamente come in passato. Si tratta di un Paese che mi attira tantissimo: ci andrei anche domani ma, quando sei lì, ti accorgi di una spaccatura sociale davvero spaventosa".
Abbiamo sfiorato l'ambito politico: c'è una fase politica che Federico Buffa racconterebbe alla sua maniera?
"La mia. Quella che mi piaceva, nonostante fosse il decennio peggiore della storia della Repubblica. Da piccolo ho avuto una militanza radicale. Ero un liberale per come andava inteso una volta. Oggi non ha più senso questo termine in Italia credo. Non lo so. Comunque, l'idea dell'acquisizione dei nuovi diritti è qualcosa che, su di me, ha sempre avuto un grande fascino. Paradossalmente, è un periodo in cui non potevo votare: davo consigli agli amici o alle sorelle ed ai fratelli degli amici. Ero troppo piccolo ma ero molto coinvolto. Quando mi viene chiesto delle medaglie d'oro di questa estate o delle medaglie d'oro in generale, rispondo di essere sempre affascinato dalle medaglie d'oro delle italiane. Molto di più rispetto a quelle degli italiani. Ti racconto cosa mi è successo di recente a Macerata: abbiamo fatto un viaggio sui diritti delle donne del novecento. Quanto tempo ci si è messo, in Italia, a derubricare da atto contro la morale ad atto contro la persona vari reati di cui, in questo momento, si parla tanto? Siamo arrivati tardissimo alla derubricazione. Ogni volta che una ragazza italiana vince una medaglia d'oro, non batte soltanto le avversarie: c'è anche la difficoltà che tante donne hanno avuto di esprimersi nello sport. Questo periodo devo parlare di Dick Fosbury, che è forse il più rivoluzionario atleta di tutti i tempi, per via del fatto che prende uno stile consolidato e se ne inventa uno che è controintuitivo e che non c'entra niente con il precedente. Quando la signora dello sport italiano, Sara Simeoni, incontra Fosbury dopo tanti anni, gli butta le braccia addosso e gli dice: "Grazie. Senza di te io non avrei vinto la medaglia d'oro". Ecco: mi piace da morire raccontare questo tipo di storie, dove ci sono fattori che si intersecano. Sara Simeoni resta la mia atleta preferita. Diceva: "Io devo andare al campo sportivo perché devo fare qualcosa di diverso". Altrimenti sarebbe restata a casa come hanno fatto tante donne a lei contemporanee. Sembrano discorsi lontani, ma non lo sono.
Buffa ha importato o inventato una nuova modalità giornalistica che in Italia non era conosciuta. Poi ci sono il web ed una prospettiva tutta da disegnare. Lei sostiene che i narratori, invece, non spariranno mai...
"Io uso l'espressione reporter. Non amo utilizzare le parole inglesi ma questa, per qualche motivo, mi sembra corretta. Alcuni mestieri spariranno, come nel corso naturale. Piaccia o non piaccia. Vale anche per le professioni. Pure il modo di fare il giornalismo cambierà. Di recente, credo di aver letto da qualche parte una ripresa di una mia intervista rilasciata a Repubblica. Mi si chiedeva come sarebbe stato raccontare le storie contemporanee. Ho risposto dicendo: "Se tra vent'anni bisognerà raccontare Berrettini e Jacobs, quanto materiale avremo disposizione?". Un quantitativo enorme. Se invece vuoi andare indietro nel tempo, il materiale è molto meno. Quindi puoi permetterti di portare il tuo ascoltatore all'interno di una storia. Per raccontare quello che sta succedendo adesso, potrai avere a disposizione anche tutte le immagini della carriera di uno sportivo. Mentre, nei casi del passato, non hai quasi niente: le solite quindici o venti immagini. Per cui puoi occupare uno spazio narrativo. Più si andrà avanti, più sarà difficile scegliere i mezzi per quello che vuoi vedere e per quello che vuoi dire".
Lei è un orientalista. Il suo documentario sull'India è clamoroso. L'Oriente va occidentalizzandosi?
"Che bella questa cosa dell'India. Pensavo non l'avesse visto nessuno. Io sono affezionatissimo a quel documentario. L'Oriente è inscalfibile. Se tu vieni a casa mia, noti che, a parte i libri, ho pochissimi oggetti: quelli trasportabili, tra quelli che sono in giro per la casa, sono tutti presi in Oriente, con prevalenza Giappone per l'ottanta percento. Io mi circondo di oggetti che incidano sulla mia tranquillità d'animo.
Ho una casa con dei grandi muri bianchi e pochissime cose dentro. Gli oggetti sono pochi e devono avere un potere taumaturgico, con l'eleganza, sulla mia tranquillità. Si tratta del mio modo di stare al mondo. Qualcosa che viene sicuramente dall'Oriente".
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