Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19.
Si dice che la storia, beffarda e imprevedibile, tenda a ripetersi nel corso dei secoli. Era il 1423 quando la Repubblica di Venezia aprì il primo lazzaretto della storia. Si trovava su un’isola nella laguna centrale della città, vicina al Lido e di fronte al bacino di San Marco. Due ettari e mezzo, 8.500 metri quadri edificati, il primo e vero ospitale nel mondo dedicato esclusivamente all’isolamento e alla cura dei malati di peste. Dal nome dell’isola, dedicata a Santa Maria di Nazareth, derivò prima il termine Nazaretum poi trasformato dal senso comune in Lazzaretto, forse a causa della vicina isola dedicata a San Lazzaro. Una parola che entrerà nella storia, simbolo delle tante battaglie contro le pestilenze che città, Stati e continenti si troveranno via via a combattere. Pochi anni dopo, nel 1468, il Senato della Serenissima fece edificare su un’altra isola anche il lazzaretto nuovo, per distinguerlo dal vecchio, con il compito di prevenire i possibili contagi della peste. È proprio qui che venne inventata la «quarantena», cioè quaranta giorni di isolamento, per le navi che da tutti i posti del Mediterraneo portavano le merci all’ombra di San Marco. Il paragone col presente potrà apparire audace, forse addirittura forzato. Ma le coincidenze con le scelte «innovative» fatte dal Veneto nella battaglia al coronavirus sono più di una.
Innanzitutto dalle parti di Padova non esitano neppure un secondo a «mettere in quarantena» Vo’, riducendo contagi, infetti e decessi. Poi la Regione avvia una vera e propria sfida al mondo scientifico, all’Oms e ai consulenti del governo sulla realizzazione dei tamponi. Mentre a Roma e a Ginevra si predica il Vangelo secondo l’Oms di fare test per il coronavirus solo ai sintomatici con una storia epidemiologica a rischio, Zaia decide di disobbedire. I virologi dicono che i tamponi a tappeto sono «inutili» se non «dannosi»? Il Veneto li implementa. In tutto il mondo governa lo scetticismo sulla possibilità che il virus cinese arrivi in Occidente? Le aziende sanitarie regionali si attrezzano acquistando reagenti per il test a prezzi stracciati, prima che la corsa al tampone li trasformi in beni di prima necessità e ne faccia lievitare il costo. In Italia criticano la strategia di sottoporre tutti agli esami diagnostici? Il governatore risponde «me ne frego» e va per la sua strada. Ne nascono critiche, scomuniche scientifiche, baruffe politiche. Poi il morbo dilaga, l’Italia finisce in lockdown, gli esperti cambiano parere e al «Modello Veneto» viene pian piano riconosciuta una certa validità. Numeri alla mano, pare proprio che abbia portato risultati.
Quando sull’Italia si abbatte prima il ciclone Codogno e poi quello di Vo’, il governatore Zaia prende subito una decisione controcorrente: «Decisi, di fare i famosi tamponi a tutti i tremila abitanti di Vo’. Tutti dicevano che non bisognava farli, ho avuto un sacco di attacchi nei giorni successivi, però pensai subito che siamo davanti a un virus che non conosciamo, abbiamo i primi due cittadini contagiati...». Nell’immediato vengono realizzati 2.812 test e i risultati sono inaspettati: 73 positivi, il 2,6% della popolazione, ma non tutti conclamati. «Con i tamponi – spiega Zaia – abbiamo trovato alcuni positivi al coronavirus asintomatici, molti dei quali non conoscevano neanche i famosi primi due contagiati, ammesso e non concesso che fossero i primi due». Tradotto: tra gli infetti, 30 persone, il 41.1%, non presentano alcun sintomo. La squadra di Crisanti si mette allora al lavoro per ricostruire legami personali, parentele, contatti, nella speranza di poter contenere la diffusione. «È stata una scoperta straordinaria, perché se noi avessimo lasciato quelle persone a piede libero e non in isolamento fiduciario avremmo avuto degli untori inconsapevoli». La scoperta veneta inficia le convinzioni fino a quel momento radicate nel mondo scientifico, soprattutto italiano (ma anche della sanità veneta). Nei primi giorni tutti sono concentrati a indagare lo stato di salute di chi presenta tosse, febbre o congiuntivite. Nessuno invece si preoccupa degli asintomatici, ovvero la massa di persone positive al virus, potenzialmente contagiose, ma abbastanza fortunate da non sviluppare i sintomi dell’infezione. Nessuno pensa di fare una mappatura di massa, per capire se ci siano a «piede libero» individui senza sintomi, ma comunque infetti e potenzialmente contagiosi.
Qualche giorno dopo, il cellulare di Zaia inizia a squillare e dall’altra parte della cornetta sente per la prima volta la voce di Crisanti. «Non me l’ha presentato nessuno, mi sono fatto dare il suo numero e l’ho cercato io – ha raccontato il virologo – Fu una lunga telefonata. La fortuna non esiste: chiamiamo così l’incrocio delle persone giuste, al momento giusto, nelle condizioni giuste». Crisanti chiede al governatore di ripetere l’esperimento dei Covid–test su Vo’ alla fine della quarantena, convinto che servano dati più precisi per poter decidere quali politiche intraprendere. Zaia si convince rapidamente e mette a disposizione del virologo 150mila euro per ripetere l’esperimento. La decisione permetterà di creare un caso unico al mondo: Vo’ è infatti il solo cluster chiuso con casi di infezione che sia stato sottoposto a tamponi di massa per due volte consecutive, a 14 giorni di distanza. I risultati diranno che la decisione di controllare tutti e isolare gli infetti ha funzionato: vengono trovati 29 positivi, di cui solo 8 «nuovi» casi e il 44.8% ancora asintomatici. Ma intanto la maggior parte dei contagiati si è negativizzata. «Noi a differenza di Codogno abbiamo potuto fare i tamponi a tutti», ci spiega il sindaco Martini. «Così scovando gli asintomatici e mettendoli in isolamento fiduciario siamo riusciti ad abbassare l’indice di contagio». Crisanti lo annuncia «in via confidenziale» al governatore via sms, spiegando che in una prima fotografia «il tasso di reinfezione» è sceso «all’1 per mille dal 3 per cento iniziale». «La sorveglianza attiva funziona», afferma il virologo annunciando entro un paio di giorni i dati completi. «Ma è un successo senza precedenti, un modello che può essere esportato a tutti i focolai senza necessariamente chiudere tutto». Zaia è raggiante e risponde con la sola emoticon con la freccia in alto e la scritta «TOP».
Visti i risultati di Vo’, a metà marzo il Veneto decide allora di adottare la stessa, identica strategia per tutta la regione: tamponi, tamponi, tamponi. «Al fine di interrompere la circolazione del virus Sars-CoV-2 nella popolazione generale – si legge nella direttiva regionale – si intende avviare un piano che attraverso l’individuazione di soggetti ‘positivi’ paucisintomatici ed asintomatici consenta l’allargamento dell’isolamento domiciliare fiduciario attorno al caso ‘positivo’». Gli obiettivi sono ambiziosi: individuare tutti i casi sospetti, probabili e confermati; effettuare un’approfondita indagine epidemiologica per individuare tutti i possibili contatti, anche quelli definiti «non stretti» o a basso rischio; disporre poi le misure di quarantena e isolamento domiciliare fiduciario; individuare positivi in «categorie di lavoratori dei servizi essenziali», come gli addetti alle casse dei centri commerciali, i vigili del fuoco e le forze dell’ordine; e, soprattutto, realizzare uno screening completo di tutti i dipendenti del Sistema Sanitario Regionale, farmacisti e operatori delle strutture per non autosufficienti. «Non abbiamo fatto entrare nessun paziente in nessun reparto, anche se aveva l’appendicite, l’ictus, finché non era stato testato per il coronavirus, perché non volevamo che infettasse gli altri pazienti e i medici nel reparto», racconta a Le Iene Crisanti. Il risultato è che, tra le zone d’Italia con più casi, il Veneto risulterà essere quella con il più basso tasso di operatori sanitari infettati. Per riuscire a tenere il ritmo, la Regione investe 350mila euro e acquista dagli Stati Uniti una macchina in grado di realizzare ogni giorno 9mila tamponi. Il risultato è che al 3 maggio l’Emilia Romagna, che ha un numero simile di abitanti, realizzava in media settimanale 113 tamponi al giorno ogni 100mila abitanti, contro i 180 del Veneto. In termini assoluti, vuol dire che in circa due mesi Bologna ha effettuato 197mila tamponi. Venezia oltre 378mila.
Oggi la scelta del governatore può apparire logica e forse addirittura scontata. Eppure nelle ore calde dell’epidemia appariva come una vera e propria ribellione. Basta tornare indietro nel tempo e rileggere le dichiarazioni di governo, esperti e virologi per capire la portata dello strappo veneto. All’inizio dell’epidemia le autorità sanitarie sottopongono a tampone tutte le persone con cui i positivi sono stati a contatto e i casi iniziano così a emergere un po’ ovunque. «Le inchieste sul focolaio di Codogno – ci spiega una fonte nella task force lombarda – ci avevano dimostrato la presenza di casi propagati che ormai erano arrivati molto lontani. Una cosa che ormai ci è chiara, ma in quei giorno lo era un po’ meno, è che la velocità con cui noi raccoglievamo le informazioni sulla catena di contagio era insufficiente rispetto a quella del virus». Nel mondo inizia a farsi strada l’immagine di un’Italia «lazzaretto». Alcuni Paesi arrivano addirittura a sbarrare i confini col Belpaese e così la politica si ribella: c’è chi va a fare aperitivi (vedi il segretario del Pd Nicola Zingaretti) e chi propone di far ripartire Milano (leggasi il sindaco Beppe Sala). Per mettere ordine nella confusione, e forse nella speranza di «ridurre» l’impatto dell’epidemia, il governo decide di dettare una linea unica e di sottoporre al tampone solo le persone sintomatiche. Il motto sembra essere: «meno test si fanno, meno se ne scovano». Uno stratagemma che può aiutare a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma non impedisce certo al virus di circolare. Il 27 febbraio, il consulente del ministero della Salute e membro dell’Oms, Walter Ricciardi, dichiara che in alcune parti d’Italia «i tamponi sono stati fatti in maniera inappropriata». Due giorni prima il premier Conte in conferenza stampa aveva sposato la stessa linea: «La prova tampone non va fatta diffusamente. Non è che oggi uno avverte di avere la febbre, anche alta, e fa la prova tampone. Assolutamente non sono queste le raccomandazioni della comunità scientifica». In effetti le linee guida dell’Oms, e a cascata quelle dell’Istituto superiore di sanità, non prevedono test di massa. I tamponi, ribadisce Ricciardi, vanno fatti «soltanto ai soggetti sintomatici e con fattori di rischio legati al contatto o alla provenienza geografica». (...)
Numeri alla mano, in effetti, il modello Veneto sembra aver funzionato: nonostante Vo’ sia uno dei due focolai iniziali, nella regione i contagi al 1° maggio erano 18.318 contro i 26.016 dell’Emilia Romagna, nonostante il triplo dei tamponi realizzati. La sua prevalenza (numero di casi ogni 100mila abitanti) nell’ultima settimana di aprile era di 373, contro il 583 dell’Emilia e il 771 della Lombardia. Il merito va dato al sistema sanitario, che vanta un’ottima integrazione tra ospedali e medicina del territorio. Ma forse anche all’intuizione di predisporre i test a tappeto. «Il virus qui è stato isolato – dice orgoglioso il sindaco di Vo’ – Ed è rimasto all’interno del paese. Non si è espanso.
Il nostro sistema ha salvato Padova, Vicenza, Verona, Treviso e Rovigo. Il virus isolato a Vo’ è rimasto a Vo’». Una «operazione chirurgica» tutt’altro che scontata. Il Veneto è stata la prima Regione in Italia a sposare i test a tappeto. Un po’ come per il lazzaretto nella Serenissima.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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