Se un'orchidea fa più paura di un dragone e di un leone, o il fiore è velenoso, o le fiere sono troppo lontane per mordere.
Le bandiere fanno solo il loro lavoro. Riuniscono un popolo, richiamano un ideale, fanno da ponte tra un passato e una speranza di futuro. Si possono sventolare, portare al cuore o brandire come un'alabarda. E possono coesistere o annientarsi a vicenda.
La bandiera coloniale britannica - con la Union Jack, il leone inglese e il drago cinese -, issata dai giovani manifestanti nel Parlamento di Hong Kong, pesa quanto i secoli di storia che l'hanno disegnata. Ragazzi che avevano al massimo tre o quattro anni quando nel 1997 l'isola tornò sotto la sovranità di Pechino l'hanno usata per coprire la nuova bandiera, campo rosso come il libretto di Mao, una stella comunista per ogni petalo del fiore di Bauhinia blakeana. Un solo gesto per ribaltare la storia e la sua visione manichea in cui gli europei sono sempre stati invasori cattivi.
Intendiamoci, del colonialismo il Terzo mondo e l'Europa portano ancora le cicatrici e il senso di colpa. Le coperte al vaiolo dei Conquistadores che spazzarono via maya e aztechi, lo schiavismo francese, le carestie nel Raj indiano, i massacri inglesi dei Mau Mau in Kenya e quelli tedeschi degli Herero in Namibia, i belgi di re Leopoldo in Congo che mutilavano chi non raccoglieva abbastanza caucciù, l'apartheid in Sudafrica: il colonialismo è stato anche tutto questo. Dunque, com'è possibile rimpiangerlo?
In Inghilterra Paul Gilroy ha coniato il termine post colonial melancholia. È il rimpianto per i tempi andati dell'impero, quando Londra dominava il mondo. È il frutto politicamente scorretto e non poco razzista dello spaesamento e del rancore che covano in generazioni che faticano a ritrovare un'identità nella globalizzazione. Ma è la nostalgia di una supremazia, non di un'oppressione. Nell'ottica dell'homo homini lupus è più comprensibile. Ad Hong Kong invece si chiede il ritorno alla sudditanza dalla corona, un innaturale ritorno al passato.
È un paradosso solo apparente. Primo perché qui il colonialismo ha mostrato il suo volto meno cruento e più modernizzatore. Gli inglesi non hanno fatto carne di porco e si sono limitati a creare infrastrutture e un sistema di leggi improntate al liberalismo economico più spinto: se Hong Kong è un ricchissimo hub mondiale dei servizi e della finanza è solo per merito dei britannici inventori del capitalismo. In secondo luogo, per Hong Kong tornare sotto Pechino significa comunque perdere la libertà di cui la popolazione ha sempre goduto. Passare sotto un regime di fatto peggiore di quello degli invasori stranieri. Perché la Cina è la maggiore espressione del colonialismo contemporaneo, come dimostrano gli investimenti in Africa e il pugno di ferro con Taiwan.
Qui sta il punto. Bianco e nero non sono sempre così netti. Non lo sono stati neppure nei Balcani di Milosevic o in Sudafrica dopo l'abolizione della segregazione razziale. Esistono infinite sfumature di buio e oppressione e a volte bisogna scegliere la meno pericolosa. In Ucraina accolsero le Waffen SS come liberatori perché avevano sperimentato l'holodomor, la carestia programmata con cui Stalin aveva sterminato tre milioni di contadini. Qualunque prospettiva sembrava migliore, perfino Hitler. È la relatività della storia, la stessa che oggi aiuta a capire Hong Kong, oppure i piccoli Stati dell'Oceania orfani del Commonwealth.
Se il Novecento è stato il secolo delle indipendenze politiche, questo sembra essere quello delle libertà e soprattutto del benessere. I leoni e i draghi del colonialismo sono lontani e fanno meno paura perché c'è la consapevolezza (o l'illusione?) che certi orrori non potranno tornare.
Il fiore del Partito comunista cinese, coi suoi campi di rieducazione e la persecuzione dei dissidenti, è invece un pericolo molto più concreto. È una cappa pronta a calare su Hong Kong per soffocarla. Per questo spaventa più di un ritorno al colonialismo. Perché senza aria nessuna bandiera riesce a sventolare.
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