C'è una bugia che ci ha accompagnati per tutta la Fase 1. Abbiamo dovuto accettarla come un peccato veniale, commesso per tirarci su il morale nonostante la strage quotidiana. «Andrà tutto bene». Tre parole di pura speranza sulle lenzuola appese ai balconi, a corredare gli arcobaleni dipinti dai bambini, ingabbiati assieme ai loro desideri di libertà. Ora che affrontiamo la Fase 2 spunta un'altra convinzione, anzi una sentenza passe-partout, meno perdonabile perché pronunciata dagli adulti. E che si può riassumere così: «Dobbiamo imparare la lezione del virus che ci ha reso tutti uguali». Lo hanno detto tanti politici come uno slogan tra i tanti, opinionisti da salotto tv con le opinioni degli altri, persino gli scienziati per ficcarci in testa quanto il rischio di ammalarsi non risparmi proprio nessuno, e pure la popstar Madonna davanti ai suoi follower a sei zeri. Niente di più semplice e scontato, ma niente di più superficiale. Perché se c'è una «lezione» che l'incubo Covid ha messo sotto gli occhi di tutti, è che la pandemia da noi ha colpito in maniera del tutto disomogenea, non solo in senso anagrafico e geografico. E se in parte è vero che il Coronavirus non fa distinzioni tra ceto o classe sociale, ammesso che questi termini conservino ancora un significato attuale, è evidente che non la malattia bensì le sue conseguenze abbiano accentuato le differenze e le distanze tra le persone. L'Italia, che adesso abbozza una ripartenza, scatta da blocchi quanto mai sfalsati. Sessanta giorni di lockdown non hanno pesato allo stesso modo su 3,3 milioni di dipendenti pubblici, pur legittimamente «garantiti», rispetto a 15,7 milioni di lavoratori del settore privato e a 5 milioni di partite Iva. Insomma, rispetto a coloro i quali, per dirla nel linguaggio dei Dpcm, è stato «consentito» solo di aspettare il giorno in cui poter tornare a lavorare pur sapendo che dovrà farlo in condizioni eccezionali e, per molti, non sostenibili a lungo. Come per quegli artigiani e professionisti rimasti in attesa di chiare linee guida, sgravi fiscali, o di un assegno da 600 euro.
Non è una questione soltanto di portafoglio. Le scelte fatte per gestire il contagio hanno eretto nuovi muri. Si è arrivato a stabilire una gerarchia tra parentele e amicizie, introducendo discriminazioni su base territoriale, come se un genitore o un fratello al di fuori della propria Regione di residenza non fossero «affetti stabili», meritevoli di essere riconosciuti. Amplificando gli attriti Nord-Sud, alcuni governatori ci hanno messo del loro chiudendo i confini della Regione-Ducato stravolgendo il diritto di proprietà privata, non si capisce bene fino a quando, con il divieto di soggiornare nelle seconde case anche se lontane una manciata di chilometri. Un'ossessione di controllo che, probabilmente, è destinata a intossicare i rapporti tra cittadini e istituzioni ben oltre la fase acuta dell'emergenza.
Financo il triste bilancio dei morti non presenta lo stesso conto su ogni tavolo. Quasi 23mila vittime, sulle poco più di 29mila totali, sono concentrate tra Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto.
In confronto allo scorso anno, certifica l'Istat, +568 per
cento di decessi a Bergamo, ma dato in negativo da Roma in giù. La metafora della Livella qui non funziona. No, il virus non ci ha reso tutti uguali. Si spera, almeno, che ci renda più responsabili oggi e meno divisi domani.
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