Magari è solo una congettura o, peggio, un sospetto ma l'esperienza ci insegna che non c'è un limite a quello che avviene nei tribunali e nelle procure del Belpaese: da noi spesso anche nell'amministrazione della giustizia, nell'interpretazione delle leggi, nell'uso delle norme si lancia un messaggio o, per dirla per intero, le toghe fanno politica. Se addirittura un ex ministro dell'Interno, che rischia la galera solo per aver fatto il suo dovere, deve presentare una denuncia in sei procure perché le intercettazioni raccolte da un sommergibile della nostra Marina sull'attività di una Ong spagnola che lo scagionavano non sono state inserite nei fascicoli dei procedimenti penali che lo riguardavano, può davvero succedere di tutto. Una vicenda che fa il paio con quella del pm Fabio De Pasquale che è imputato in un procedimento penale per aver nascosto una prova utile alla difesa nel processo delle presunte tangenti Eni in Nigeria.
Ecco perché il dubbio che alcuni magistrati facciano politica anche quando esercitano la loro attività professionale da noi è legittimo. Ad esempio l'house organ del giacobinismo italiano, Il Fatto, è stato il pesce pilota di una campagna che va avanti da settimane e punta a dimostrare come la riforma Cartabia sia un tragico fallimento: sembra che all'improvviso buona parte delle toghe italiane, infatti, siano diventate ipergarantiste. Hanno rimesso in libertà tifosi con l'obbligo di soggiorno che armati di coltelli hanno partecipato a risse a 500 chilometri distanza dai luoghi dove erano obbligati a stare; o, ancora, sono rimasti a piede libero boss mafiosi perché le parti offese non hanno avuto il coraggio di presentate denuncia; o un automobilista che ha investito due bambini e picchiato una vigilessa è potuto tornare tranquillamente a casa solo con la raccomandazione di un gip: «stia attento alla guida».
La tesi è che sia tutta colpa della riforma Cartabia. Il timore è che ci sia un'interpretazione della norma per alcuni versi strumentale che punta a dimostrare che quella riforma sia da gettare nel secchio. Ora il sottoscritto non è mai stato entusiasta del lavoro della Cartabia, tutt'altro, e lo ha scritto nero su bianco, ma se il sospetto fosse fondato un brivido correrebbe lungo la schiena. Non potendo bloccarla nelle aule parlamentari c'è chi sabota la riforma nella sua applicazione, pardon, nella sua interpretazione. E qui arriviamo al punto. La differenza, per offrire un termine di paragone, tra il sistema giudiziario francese e il nostro è che lì i giudici «applicano» la legge, mentre da noi la «interpretano». E l'interpretazione della norma offre un ampio potere discrezionale al magistrato. Addirittura capita che per uno stesso processo, con le stesse prove o altro, tu puoi essere assolto a Napoli e condannato a Milano.
Questa discrezionalità offre al magistrato di turno la possibilità di interpretare in maniera diversa le norme inserite nella riforma Cartabia. Uno strumento formidabile in mano a quelle toghe che perseguono un disegno squisitamente politico. Ecco perché quando si fanno delle riforme le nuove regole debbono essere precise al millimetro proprio per ridurre la discrezionalità del giudice nella loro interpretazione. Una lezione per quanto riguarda la riforma Cartabia, ma soprattutto per quelle che il nuovo ministro, Carlo Nordio, si appresta a varare.
Non fosse altro perché, almeno sul piano degli annunci, dovrebbero essere più radicali di quelle di chi l'ha preceduto e, quindi, dare più fastidio a un partito che sulla carta non c'è nella realtà sì, quello delle toghe politicizzate.
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