
La strategia del rinvio contro quella dell'imprevedibilità. È la grande partita in corso dietro le quinte della trattativa sull'Ucraina. A giocarsela ci sono il presidente russo Vladimir Putin campione del rinvio e Donald Trump indiscusso mago dell'inatteso. Ma da ieri la partita non si gioca più sotto traccia. A portarla allo scoperto ci pensa The Donald dichiarando di essere «molto arrabbiato» e «incavolato» con un Putin colpevole di metter in dubbio la credibilità di Volodymyr Zelensky e di paventare un governo di transizione per l'Ucraina. «Se io e la Russia non dovessimo raggiungere un accordo per fermare lo spargimento di sangue in Ucraina e se dovessi pensare che è colpa della Russia allora applicherò tariffe secondarie sul loro petrolio», dichiara alla Nbc l'inquilino della Casa Bianca. Frasi, pensieri e minacce apparentemente in libertà. Anche perché il primo a delegittimare il presidente ucraino è stato proprio Trump durante l'umiliante scontro nello Studio Ovale in cui lui e il suo vice JD Vance hanno messo all'angolo il presunto alleato. Del resto se leggere nel pensiero di Trump è complesso ancor più difficile è capire il senso di una ritorsione basata sulle tariffe secondarie. Anche perché le sanzioni con cui l'America già colpisce Mosca sono ben più destabilizzanti delle possibili tariffe su un greggio commerciato attraverso triangolazioni garantite da India e Turchia.
In verità per interpretare l'ira trumpiana bisogna partire dalle mosse del grande temporeggiatore del Cremlino. Putin, fedele alla scuola del Kgb, punta sempre a portare allo scoperto l'avversario. E a decifrarne i punti deboli. Con Trump l'ha fatto qualche giorno fa quando ha proposto di commissariare Zelensky e trasferire alle Nazioni Unite il controllo dell'Ucraina in vista di elezioni con cui scegliere il nuovo presidente. Nello specifico Putin ha proposto colloqui «con gli Stati Uniti e persino con i Paesi europei, oltre che con i nostri partner e amici» per discutere «la possibilità di una governance temporanea in Ucraina sotto gli auspici delle Nazioni Unite» che consenta di «tenere le elezioni e insediare un governo che goda della fiducia del popolo». «Un governo - aveva aggiunto - con cui poi avviare i negoziati su un trattato di pace, firmare documenti legittimi che saranno riconosciuti in tutto il mondo e saranno affidabili e stabili». La provocazione putiniana è andata perfettamente a segno. Trump deciso a venir ricordato come l'unico presidente capace di costruire una pace impossibile (per cui - non dimentichiamolo - ripete di attendersi il Nobel) ha interpretato quelle parole come una stilettata ai fianchi. La discesa in campo dell'Onu gli toglierebbe dalle mani la gestione dell'Ucraina e il controllo dei negoziati trasferendoli in quelle di un'amministrazione provvisoria gestita dal Palazzo di Vetro. Ovviamente l'ultimo a credere alle capacità delle Nazioni Unite di condurre le trattative è proprio Vladimir Putin. Ma poco importa.
Quel che veramente interessa al Cremlino è guadagnare tempo per permettere al proprio esercito di chiudere la partita del Kursk e conquistare più terreno possibile lungo i 1.300 chilometri di fronte che attraversano le regioni di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizha. Perché se Donald ha fretta di firmare la pace Vladimir ha bisogno di vincere la guerra.
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