La nuova vita di Lapo Elkann è portoghese. Portoghese come la moglie, Joana Lemos, ex pilota di rally, e oggi organizzatrice di eventi. Si sono sposati il 7 ottobre scorso, nel giorno in cui lui compiva 44 anni. «Il lockdown l'ho trascorso quasi tutto in Portogallo», dice l'interessato. «Viviamo tra l'Estoril, dove c'è il circuito automobilistico, a pochi chilometri da Lisbona, e l'Algarve, nel sud del Paese. Per noi è più facile avere una vita normale là, piuttosto che in Italia, anche per questo non le voglio infliggere un trasferimento. Tra l'altro in Italia mia moglie è la signora Elkann, ma in Portogallo io sono il signor Lemos. È più famosa lei di me, io sono semplicemente il marito».
Lei era arrivato alla sua età con un percorso netto. Molte compagne, ma nessuna moglie: questa volta che cosa è successo per convincerla al matrimonio?
«Di regole non ce ne sono: ho amici che si sono sposati giovanissimi e sono ancora insieme, altri si sono lasciati. Il matrimonio è costruire una famiglia con qualcuno che stimi, che rispetti e che ami. È difficilissimo anche solo provarci: trovare l'amore è una cosa, trovare qualcuno con cui costruire va ancora oltre. Di mia moglie ho detto che mi aiuta a diventare la versione migliore di me stesso e lo confermo. Ogni mattina sono orgoglioso di svegliarmi e vedere la donna che ho al mio fianco».
Come minimo vi ha unito l'amore per i motori. Sua moglie ha un passato da pilota, lei è un noto appassionato di velocità... Chi guida tra voi due?
«Diciamo che ci alterniamo, piace a entrambi. Ci ha unito la passione per l'automobile ma anche la passione per la solidarietà. Mia moglie è una persona umanamente forte e buona. Io sono più creativo, lei più strutturata: ha portato la Parigi-Dakar in Portogallo, ha portato il grande tennis e il grande golf, sa cosa è il gioco di squadra. Lei aiuta e supporta me, io lei. Siamo due positivi con capacità diverse. E la pandemia è stata una bella conferma: stavamo praticamente 24 ore insieme».
È diventata vice-presidente della Fondazione Laps che lei ha creato qualche anno fa.
«Ecco, per esempio, parlando di solidarietà piace a tutti e due andare sul terreno e far succedere le cose. Firmare un assegno non basta. O almeno non basta a noi. La Fondazione è nata nel 2016. Dal Banco alimentare alla Croce Rossa, abbiamo collaborato con molti enti e avviato tante iniziative: lanciato una campagna come "Never Give up" con l'aiuto tra l'altro di Bebe Vio, Alex Zanardi, Ronaldo, Xavier Zanetti. I proventi della raccolta fondi sono andati alla Croce Rossa per sostenere le famiglie in crisi per il Covid. Siamo riusciti a collaborare con nazionali di calcio come quella italiana, portoghese e israeliana. Abbiamo anche la soddisfazione di aver ricevuto un riconoscimento come l'Uefa Foundation Award di cui siamo molto orgogliosi».
Ma la fondazione che obiettivi ha?
«La Fondazione nasce per aiutare i bambini e durante la pandemia l'attività si è allargata in genere al sostegno delle famiglie, un modo indiretto per aiutare i più piccoli. Cerchiamo di usare la mia visibilità per sensibilizzare l'opinione pubblica e mobilitare risorse. Vogliamo riuscirci con un sorriso, dare aiuto ma anche dignità, felicità e positività. L'ultima cosa che abbiamo fatto è sull'isola di Madeira, sempre in Portogallo».
E cioè?
«Ai primi di dicembre abbiamo inaugurato una casa per tossicodipendenti o alcolisti in recupero senza fissa dimora: avranno un primo percorso di sei mesi con le famiglie per riprendere in mano la loro vita. L'abbiamo fatto in collaborazione con Fondazione Casa, una realtà molto grande che opera in Portogallo ma anche in altri Paesi del mondo. Aveva ricevuto in dono una casa diroccata a Madeira, un'isola che ha delle problematicità sociali forti, non avevano i mezzi per rimetterla a posto, ci abbiamo pensato noi. Tra l'altro l'incontro con loro può diventare il modello di quello che cerchiamo di fare».
Vale a dire?
«In Portogallo cerchiamo di aggregare nomi e realtà forti del business in grado di creare una filiera, una rete in grado di supportare più enti con percorsi duraturi. In generale cerchiamo serietà, trasparenza e limpidezza nell'operare. Nel Terzo settore non ci si può permettere nemmeno una virgola fuori posto. Bisogna fare ancora più attenzione che in una azienda quotata. Si vive di trasparenza e attenzione per gli altri. Per questo nelle nostre iniziative ci facciamo seguire da una società di revisione come Deloitte. Vale per Madeira ma anche per il progetto che abbiamo appena avviato in Calabria».
Di che cosa si tratta?
«Nei giorni scorsi siamo andati a Crotone a conoscere una suora che è una santa: Suor Michela, premiata anche dal presidente della Repubblica, con la sua vice Suor Caterina. Hanno due associazioni, «Noemi» e «Piccoli passi». Si occupano delle donne vittime di violenza e dei loro bambini. Per capire il contesto di una zona difficile come la Calabria abbiamo incontrato anche magistrati in prima linea su questo tema come i giudici minorili. Creeremo una casa protetta per sostenere chi ha bisogno, per un periodo lungo due anni. Abbiamo deciso di intervenire quando abbiamo visto che qualcuno ha sfondato i cancelli delle loro associazioni».
Perché ha scelto di aiutare i bambini? C'entra qualcosa il fatto che lei sembra avere un rapporto complicato con la sua infanzia? Una volta ha detto: sono stato un bambino fortunato ma mi sono anche sentito infelice.
«La verità è che l'esperienza più forte l'ho avuta durante una visita al carcere di Nisida, a Napoli. Lì ho incontrato un ragazzo killer della camorra che mi ha raccontato la sua storia. Gli ho chiesto: se ti aiutassi a cambiare vita, ci staresti? Proveresti a uscirne? E lui mi ha dato una risposta che mi ha gelato: guarda che se io esco fuori la mia "spettanza" di vita è al massimo di sei mesi. Mi ricordo che rimasi così turbato che uscito dal carcere vomitai. E allora ho pensato che si può andare in Africa a fare del bene, ma si può anche iniziare da casa nostra. E i primi progetti che ho curato riguardavano Napoli e la Campania. Saranno almeno il 30% del totale di quelli che abbiamo avviato. Ora voglio allargare la presenza in altre Regioni. La Calabria, appunto, ma anche il Piemonte, a Torino. Qui vorremmo mettere la sede della Fondazione in una zona disagiata di case popolari e farne il nostro quartier generale. Per essere più presenti sul territorio».
Torino la ricollega direttamente alle radici della sua famiglia...
«È un discorso complicato: vivo in Portogallo e quando vengo in Italia mi sposto tra Torino, Roma e Milano. Ma sono nato in America, ho fatto il liceo a Parigi, l'università a Londra. Una fortuna, indubbiamente, che però rende più difficile mantenere i rapporti con gli amici e tenere salde le radici. Anche se, ovunque vado, le sento italiane. Ci sono, certo, tanti luoghi che amo nel mondo. Adoro Israele, perché sono ebreo, amo il Portogallo perché mi ha accolto. Ma delle radici italiane sono orgogliosissimo».
E qui si torna a Torino...
«Sono torinese come mio nonno Gianni. Ma anche napoletano: mia.nonna materna, una Caracciolo, me l'ha insegnato e non l'ho dimenticato. Il papà di mio papà, invece, era alsaziano ed è stato capo della comunità ebraica francese. Era un ebreo askenazita. Non è finita: la mamma di mio padre, che lavorava alle Nazioni Unite, era un'ebrea, questa volta sefardita, di famiglia torinese».
Anche dal punto di vista religioso lei è un bel mix: cresciuto in un contesto cattolico; suo padre Alain Elkann, ebreo; sua madre Margherita convertita all'ortodossia. La sua fondazione ha un fondamento religioso o si ispira, per così dire, ai valori di un umanesimo laico?
«Si va al di là della religione. Un concetto ancora precedente, con tutto il rispetto per le diverse fedi, è quello di spiritualità. Abbiamo fatto di tutto per superare ogni distinzione: lavorando in Israele abbiamo fatto progetti ed aiutato famiglie ebree, musulmane e cristiane. La realtà dei fatti è che secondo me di Dio ce n'è uno solo. Che tu sia cristiano, musulmano odi qualsiasi altro credo. Non do giudizi, solo non sopporto gli estremi e gli estremismi. Questi portano il male».
Lei però ha detto di essere ebreo e l'ebraicità viene trasmessa per via materna. Quindi...?
«Sono ebreo perché mi sono convertito qualche anno fa. Ho sempre sentito l'orgoglio di avere un padre ebreo, che nel suo modo personale è stato un gran padre. Poi ha pesato il rapporto con la mia nonna paterna, Carla Ovazza. Una persona con un cuore gigantesco che ha sofferto molto nella vita, negli anni Settanta fu anche rapita, ed è sempre stata portatrice di bontà e umanità. In ogni momento ha lavorato nell'ottica di fare del bene. Perfino a proposito del sequestro: rimase prigioniera per quattro mesi eppure anche nei confronti dei suoi rapitori non ho mai sentito cattiveria o desiderio di vendetta. Mio nonno paterno, che si dava da fare per la comunità ebraica, era una figura istituzionale, mia nonna era amore».
Con queste origini così variegate e cosmopolite come si trova a Lisbona?
«Benissimo. Il Portogallo come l'Italia è un Paese che dà calore. E questo si apprezza molto in un momento in cui il Covid ci porta a essere distanti. Il calore lo senti nel sole, nel mare, negli occhi della gente. E Lisbona è una città estremamente internazionale. Molto più di quello che si pensi. Dal punto di vista di creatività e innovazione c'è molto da fare. E tanto si fa, molti creativi si sono spostati lì. Per me è un ambiente interessantissimo. Io mi considero sì un imprenditore della solidarietà e un uomo che ha fatto impresa ma resto un creatore e un creativo. Per questo mi appoggio a dei manager, perché non sono un gestore quotidiano del business e non è quello il mio forte. In passato, non mi vergogno a dirlo, ho commesso l'errore di mettermi troppo nei panni dell'imprenditore, con il risultato di perdere in creatività. La pandemia mi ha fatto capire che era ora di invertire la rotta».
Nel frattempo, però, una, delle sue passioni italiane vive momenti difficili: la Juve. L'Inter l'ha superata.
«Intanto l'Inter ha preso un manager molto bravo come Beppe Marotta, per il quale ho grande stima e che ha fatto un grande lavoro. Oggi, secondo me, è uno dei più bravi che ci sono in Italia».
La Juve però l'ha lasciato andare via.
«Non sono particolarmente addentro nelle cose juventine. Non conosco le problematiche interne e non ci voglio entrare. Sono coinvolto emotivamente come tifoso. E da tifoso dico che se lo scudetto non lo vince la Juve mi piacerebbe lo vincesse il Napoli. Ma tutto lascia pensare che se lo contenderanno Milan e Inter e l'Inter è più forte».
Quanto alla Juve?
«Io sono portato a guardare a squadre come Ajax e Sporting, che ha vinto lo scudetto l'anno scorso in Portogallo: vivai forti, giovani forti. Il povero Chiesa si è fatto male ma sarebbe bello avere tanti Chiesa in diversi ruoli. Più talenti italiani, come Locatelli, in più aree del campo e meno stranieri. Un discorso che vale per tutta la Serie A, che dovrebbe investire di più sui ragazzi. Intanto, però, mi preparo al mio prossimo grande conflitto di interesse calcistico, che sembra ormai inevitabile».
Cosa intende?
«Portogallo-Italia, lo spareggio di marzo per i mondiali. Sarà divertente ma anche dura.
Mancini è più forte del suo collega portoghese. Ma i nostri avversari hanno Ronaldo, che non vuol perdere il suo ultimo mondiale Anche se lo stesso vale per Chiellini. E quanto valga Giorgio lo abbiamo visto agli europei».
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