Vittorio Emanuele, lo Stato si esilia dai funerali

Il fascino vintage è forte ma non è una cerimonia d'altri tempi

Vittorio Emanuele, lo Stato si esilia dai funerali
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Il fascino vintage è forte ma non è una cerimonia d'altri tempi. C'è semmai un mondo antico che in parte è uscito di scena ma per il resto si è adattato al nuovo. Ecco la regina Sofia di Spagna, affettuosa e empatica e a due passi da lei Alberto di Monaco, irrigidito come un manichino nel (...)

(...) ruolo. Teste coronate, nobili che riprendono tutto con il telefonino, borghesi un po' datati è un po' no. In prima fila, seduti uno accanto all'altro, Mario Borghezio, leghista della prima ora, e Gabriele Albertini che si inchina davanti alla storia: «I Savoia hanno fatto l'Italia, era giusto esserci. Io del resto da sindaco di Milano accolsi Vittorio Emanuele a Palazzo Marino appena lui poté tornare in Italia».

Strette di mano, abbracci, flash e servizio d'ordine smart: Emanuele Filiberto arriva per ultimo, insieme al feretro del padre. La bara di Vittorio Emanuele, il principe che è uscito dalla storia per entrare nella cronaca, viene adagiata per terra, su un tappeto, e ricoperta con il drappo reale di color rosso, steso fra gli altri da Aimone di Savoia e Serge di Jugoslavia.

Il Duomo di Torino non ha l'ampiezza smisurata di quello di Milano, riempito quasi come uno stadio per le esequie di Berlusconi, ma contiene senza problemi i quattrocento, selezionati invitati. Da Maria Pia, la sola sorella presente, a biondi bambini incravattati a lutto. Sobrietà e misura, tante rughe e gioielli, ma anche facce giovani. Ecco Francesco D'Ambrosio, vice sindaco ventinovenne di Belvedere Ostrense, in provincia di Ancona, con fascia al petto: «Sono uno storico, e più vado avanti nelle ricerche più mi accorgo che non ci sono stati solo l'8 settembre e le leggi razziali, errori catastrofici, ma ci fu anche una corte non fascista, anzi antifascista, intorno a Vittorio Emanuele e Umberto». Fabio Ferla, primo cittadino di Calvenzano, fra Bergamo e Cremona, è ancora più tranchant: «Qui ci sono capi di Stato e mi sarei aspettato un'adeguata rappresentanza istituzionale che invece non c'è». C'è il presidente del consiglio regionale del Piemonte Stefano Allasia, ma il Comune di Torino, la prima capitale del Regno, non è pervenuto. Insomma, gli italiani fra smemoratezza e adulazione, non sempre vogliono fare i conti con la loro coscienza. Sarebbe un discorso lungo, certo il defunto ha mancato le occasioni per mostrarsi all'Altezza e il nonno scappò verso Ortona e Brindisi nell'ora più difficile, ma non è il momento per distribuire torti e meriti. Emanuele Filiberto abbraccia di continuo con parole di consolazione la madre Marina, provata ma non vinta, gli occhi nascosti dai grandi occhiali scuri; Clotilde e le figlie Vittoria e Luisa, bellissime e filiformi, formano un trittico dolente, sempre un passo indietro. L'attacco dell'omelia è quello, si, il frammento di un meteorite arrivato da secoli lontani: «Altezze reali, maestà, altezze imperiali». Poi monsignor Paolo de Nicolò, gran priore degli Ordini dinastici della real casa Savoia - definizione chilometrica e oggi inevitabilmente portatrice di autoironia - vira verso la biografia: «Vittorio Emanuele non ebbe dai genitori tutte le manifestazioni di affetto che ci saremmo aspettati». L'addio al Quirinale arrivò che era un bambino e l'esilio divenne una condizione esistenziale. Monsignor De Nicolò indica, dietro i Savoia raccolti in formato album, la cappella della Sindone, reliquia straordinaria e carica di infinite suggestioni. Il celebrante, in tempi in cui si litiga sul tesoro sequestrato dalla Repubblica, allunga una stoccata: «La Sindone, che era proprietà dei Savoia, fu donata da Umberto alla Chiesa». Dettagli, fra sprazzi di magnanimità perduta e spilli di nostalgia, che riemergono in questa ora solenne, mentre il coro intona Perosi, l'Ave Verum di Mozart e lo strepitoso Inno Sardo.

La messa volge alla fine. I reali si salutano e finalmente si sorridono.

Le guardie d'onore, col mantello e il basco blu scuro che fanno un po' cinegiornale, controllano senza affanno e scattano foto, come le ispettrici della croce rossa che chiunque scambierebbe per suore. Fuori la pioggia non dà requie e, dietro una transenna muta, poche decine di ombrelli aperti sono l'ultimo omaggio al principe che non è mai stato Re.

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