Vizi e virtù dello shopping visti dai "Men in black"

I vigilantes dei grandi magazzini di Parigi svelano manie, tic e fobie dei signori degli acquisti

Vizi e virtù dello shopping visti dai "Men in black"

Sono vestiti così: «Giacca nera, pantalone nero, camicia nera, cravatta nera». Sono i Mib: Men in black , i vigilantes dei grandi negozi parigini. Di solito, nero è anche il colore della loro pelle. Immigrati dall'Africa (congolesi, ivoriani, maliani, guineani, beniniani, senegalesi) che come primo impiego nella capitale francese trovano un posto da «guardia» in catene di abbigliamento o di profumeria: in pratica devono controllare che nessuno rubi. Ed è dalla loro postazione che vedono il mondo dei clienti e dello shopping sfilare sotto i loro occhi, apparentemente impassibili, ma che registrano tutto: tic, manie, abitudini, vezzi nel vestire e nel parlare, vizietti più o meno leciti (dice la «regola della borsetta»: «In un negozio di abiti femminili, ogni donna è attaccata alla propria borsa, soprattutto le ladre»), conversazioni anche ridicole. È il mondo che racconta Ossiri, il protagonista di Posti in piedi , un libro scritto da Armand Patrick Gbaka-Brédé, in arte Gauz, nato in Costa d'Avorio, oggi fotografo, scrittore ed editore di una rivista economica francese ma che in passato, da neo-immigrato in Francia, ha fatto decine di lavori fra cui, appunto, il vigilante.

Un racconto (mezzo) autobiografico che in Francia è stato un caso (in Italia è stato da poco pubblicato da Elliot) perché non fa sconti a nessuno: né ai clienti, né ai negozianti, né ai commessi, né ai vigilantes stessi. Perché, dalla loro postazione (rigorosamente mai seduta) le guardie vedono e sentono davvero di tutto, soprattutto fra le vetrine di lusso degli Champs-Élysées, come nell'enorme Sephora: dove la «doccia di profumo» è «lo sport più praticato» del negozio e qualcuno giura che «non si laverà mai più» e lo stand Dior è una specie di luogo sacro per donne soprattutto «arabe, cinesi ed europee dell'est», dove «in sole tre ore di lavoro, il vigilante ha contato più donne velate che in sei mesi in tutta Belleville», zona parigina ad alto tasso di immigrazione islamica.

Bastano le reazioni al suono del metal detector per definire i clienti: per esempio, il francese si guarda in giro, «come a dire che è stato qualcun altro», il giapponese si ferma subito e aspetta l'arrivo dell'autorità di turno, il cinese «non sente o fa finta di non sentire», il francese di origine araba o africana «grida al complotto o alla discriminazione», l'americano «corre direttamente verso il vigilante, sorridente e con la borsa semi-aperta». Il tedesco? «Fa un passo indietro per testare e verificare il sistema». Gli italiani? Urlano. Poi ci sono i fissati, per esempio quel capo dei vigilantes a La Défense soprannominato Éric-Coco, «posseduto dallo spirito di Chanel», che fa controllare ossessivamente i reparti con Numero 5 e Allure e minaccia il vigilante inesperto: «Se ne perdiamo uno solo, tu non torni nel mio negozio».

Ci sono i clienti che si sentono troppo pressati e accusano il vigilante di essere «paranoico», i francesi che rifiutano il sacchetto con la scritta «saldi» in inglese, le ragazze che si provano i vestiti con l'iPhone in mano, usando Facetime al posto dello specchio e scattandosi foto da tutte le angolature, le donne che escono a piedi nudi dai camerini con l'abito giusto in mano, ma del colore e della taglia sbagliati, la leggendaria frase «troppo carino questo vestito» (la più pronunciata in un negozio di abbigliamento), le habitué che comprano abiti «come se fossero beni deperibili» e tornano ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, «a volte anche

più volte al giorno». Trascinandosi mariti che gonfiano le guance per sbuffare (e farsi notare che lo fanno), madri anziane esauste, bambini nel passeggino. Ah, il vigilante «adora i bambini - forse perché non rubano»...

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