Cuba, autocritiche come ai tempi di Stalin

COMPAGNI I due ministri licenziati da Raul Castro: «Ha ragione il partito, abbiamo sbagliato tutto»

WashingtonDiversi decenni di storia compressi in un paio di giorni: quello che succede a Cuba, e intorno a Cuba, si potrebbe raccontare anche così.
Nel momento in cui il governo americano, mettendo in pratica il programma di Barack Obama, apre cautamente la porta a migliori relazioni con il regime comunista dell’Avana, il regime riscopre, anzi ostenta forme e linguaggio che lo riportano indietro di mezzo secolo e richiamano il «modo di fare» dell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin. «Purghe», «autocritiche», distruzioni a posteriori di eminenti uomini di governo, umilianti prostrazioni dei protagonisti, sullo sfondo lo spettro di «fare il gioco del nemico». Con l’aggiunta estemporanea, questa sì senza precedenti, del «lìder maximo» che, in funzione di giornalista, anzi di columnist, plaude al fratello dittatore di turno per come ha saputo «ripulire la casa».
E, nelle stesse ore, apparentemente imperturbabile, il Congresso di Washington approva le misure di apertura e il governo americano si profonde in una autocritica sua per come si è comportato in passato con l’Avana.
Il lettore che si senta confuso ha ragione, ma i fatti non danno torto a chi glieli racconta così. Primo atto: a Cuba il presidente e capo del partito Raul Castro caccia fuori dal governo due tra i ministri più famosi e più importanti, quello degli Esteri Felipe Perez Roque e il vicepresidente del Consiglio Carlos Lage. Erano considerati i due «delfini», la successione al successore - ufficialmente provvisorio - di Fidel si sarebbe dovuta svolgere fra di loro. Perez pareva il favorito: appena quarantatreenne era già al governo da dieci anni. A Washington nel frattempo l’Amministrazione Obama propone al Congresso la cancellazione degli inasprimenti al «blocco» di Cuba introdotti da Bush.
Atto secondo: su Granma, organo ufficiale del Partito comunista cubano, appare un articolo del «pensionato»: Fidel Castro dice bravo al fratello Raul e definisce «indegni» e «ambiziosi» i due ministri deposti, «attratti e accecati nelle loro ambizioni dal gusto di miele del potere, che corrono il rischio di riempire di illusioni il nemico esterno». Al Congresso di Washington un gruppo di deputati di origine cubana protesta contro le facilitazioni e le definisce «un regalo immeritato a un regime che governa Cuba con il pugno di ferro». Dei senatori repubblicani, invece, definiscono «fallita» la politica di Bush e invitano i colleghi a cambiare strada.
Atto terzo. Prendono la parola i due reietti. Entrambi correttamente si «dimettono» dalle cariche da cui sono stati radiati. Si inginocchiano, si cospargono il capo di cenere: Perez dice di «riconoscere in pieno gli errori compiuti così bene analizzati nel documento pubblicato su Granma. Lage ricalca il dettatino parola per parola. Per lui la condanna politica è il risultato di una analisi «giusta e profonda», sintetizzata nelle «riflessioni» di Fidel. Incluso dunque quell’oscuro accenno a «fare il gioco del nemico». In tempi normali ciò significherebbe colpevoli cedimenti nei confronti degli Stati Uniti (il «nemico esterno» di solito è questo, non la Danimarca o l’Islanda).

Ma in questo momento sono proprio gli Stati Uniti a fare o promettere concessioni unilaterali a Cuba.
Il «giallo» potrebbe avere un «cattivo» alternativo: e sei due espulsi fossero invece i «duri», gli antiamericani intransigenti? Basta invertire i ruoli e il risultato, sotto quella vecchia regia, non cambia.

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