Che bello picconare armati dall'ebrezza di essere nella storia

Canti, abbracci, baci. E tonnellate di cemento in frantumi da conservare come reliquie. Giordano Bruno Guerri ricorda la sua gioia da demolitore

Picconate al Muro di Berlino il 9/11/1989
Picconate al Muro di Berlino il 9/11/1989

La prima picconata fu un orgasmo, la punta del piccone si infilò nel cemento come non dovesse più uscirne, poi feci leva e il muro si sgretolò. Stavo abbattendo il Muro di Berlino, e mi sembrava di farlo da solo, benché intorno a me una bolgia sudante e urlante rimbombasse quel muro di colpi. Alla mia destra un ragazzo tedesco sottile ansimava e teneva, chi sa perché, gli occhiali in bocca mentre colpiva con un martello, a sinistra una ragazza spagnola si accaniva con un cacciavite (Luz, dove sei?), e si metteva dei pezzi minuscoli nelle grandi tasche di un cappotto viola. Da dietro la gente ci spingeva - ma non vicino al mio piccone - si arrampicava, cadeva, quelli in cima al muro cantavano, urlavano, si abbracciavano, si baciavano, pisciavano, per scelta e per fortuna dall'altro lato.

Picconai e picconai anche se già al terzo colpo le mani, i polsi, le braccia mi facevano male. Ero felice, e non tanto per il grande fatto storico, ma perché c'ero, c'ero anch'io. Il 9 novembre 1989, quando fu dato l'annuncio che i tedeschi dell'Est potevano passare dall'altra parte senza restrizioni - preludio alla Caduta - era un giovedì. Stavo lavorando al numero zero di un mensile che sarebbe apparso di lì a poco in edicola, Chorus . Ma, accidenti, più di vent'anni prima mi ero perso l'appuntamento con il Maggio francese (preparavo la maturità...) e stavolta volevo esserci a tutti i costi.

Il Check-Point Charlie l'avevo attraversato anni prima, in visita desolata a quel confine fra due mondi: il nostro, che sembrava quasi felice, con tutti i suoi tormenti; l'altro, palesemente infelice e con tormenti quotidiani inimmaginabili da noi. Stavolta trovai solo festa e festa e festa, da entrambi i lati: l'odioso Muro, simbolo della divisione ostile del mondo, sarebbe caduto. Stava già cadendo, sotto i miei colpi di Mauerspechte , «picchio del muro», come ci avevano battezzati i tedeschi.

Venditori improvvisati - in genere turchi e italiani - mettevano a disposizione, come le bandiere e le trombe davanti agli stadi, scalpelli, picconi, badili, martelli di tutte le fogge e dimensioni e quant'altro potesse staccare, spezzare, svellere. Altri si erano specializzati in borse robuste, per portare via il bottino. Avevo comprato a prezzo altissimo un piccone davvero esagerato, due grandi borse, e scelto il punto in cui colpire, seguendo d'istinto un gruppo di ragazze spagnole carine e gioiose.

Trovammo qualche metro di muro quasi intatto, decorato e splendido, che sembrava aspettare soltanto noi, e dopo pochi minuti i dintorni erano ormai tutti come divorati da un mostro multibraccia e cementofago. Nonostante il freddo grondavamo sudore, ma che fa. Passavano venditori di birra, acqua e cocacola, ma qualcuno estraeva dalle tasche bottiglie piatte di grappa, vodka e quant'altro, e le bottiglie passavano di bocca in bocca come se l'Aids non fosse mai esistito, come se quel muro infranto fosse un vaccino totale.

Non avevo più freddo quando mi avviai alla disperata ricerca di un taxi che non si trovava, portando fiero due borse piene di sacre reliquie. Meglio, il da fare non mancava. A ogni angolo, a ogni slargo si tenevano dibattiti - murologi, dietrologi, cazzatofili imperversavano in ogni lingua, da evitare - e feste improvvisate, selvagge, dove per essere accolti alla stregua di un fratello ritrovato bastava un sorriso, soprattutto se avevi la chiara apparenza del Mauerspechte . Era un delirio di balli, canti, amori a ripetizione, della durata fra i cinque minuti e l'alba. Se ripenso a quella notte, mi incuriosisco di non avere avuto pensieri, ma neanche tanto: quando sei dentro un fatto storico gioioso, quando lo vivi fisicamente, vedi solo l'euforia, una vampata di domani luminoso, nient'altro.

I più felici, i più coccolati, erano quelli dell'Est, che avevano scavalcato il muro. Li riconoscevi subito, prima ancora che dai vestiti dall'aria radiosa di miracolati, e per loro birra e baci e pacche e pezzi di muro, ché erano i soli a non averne uno. Neanche un pensiero, quella notte, alla ricostruzione dell'Est e a quello che sarebbero diventati la Germania, l'Europa, il mondo, e se mi avessero detto «spread» avrei risposto «prosit».

Molte ore dopo, il portiere dell'albergo mi accolse come un reduce meritevole di medaglia, e anche lui ebbe in dono un pezzo di muro. Furono forse meno contenti i vicini di stanza, quando mi misi a eliminare a martellate il superfluo, riducendo il bottino a una borsa che - per il peso - mi sarebbe costata quasi quanto un biglietto aereo.

Per molti anni, ogni volta che ho voluto fare un regalo importante, ho donato un pezzo del mio Muro. Oggi me ne è rimasto solo uno, un rettangolo grande come una pagnotta, blu e rosso. Lo conservo in una teca e lo spezzerò ancora, un giorno, perché ognuno dei miei figli ne abbia un pezzo, quando potrò spiegare loro come e perché uno dei momenti di grande felicità della mia vita fu quando diventai un Picchio del Muro. Immagino che farà lo stesso anche Luz e sorrido ancora, alla faccia di Angela (Merkel) che quel giorno se ne stava a fare la sauna.

(2. Continua)

twitter: @GBGuerri

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