La felicità più imprevedibile? Scoprire che non siamo soli

Nella comunità degli studenti di Yale, tutti insieme a cantare, a seguire lezioni, a sostenere esami. E, in una notte di bufera, scoprire il senso di appartenenza...

La felicità più imprevedibile? Scoprire che non siamo soli

Pubblichiamo Il contrario della solitudine, lo scritto di Marina Keegan che dà il titolo alla sua raccolta di saggi pubblicati oggi da Mondadori (pagg. 216, euro 17, traduzione di Manuela Faimali). Lo scritto è del 2012. In quello stesso anno, in maggio, l'autrice sarebbe morta, a soli 22 anni, in un indicente stradale.

Non c'è una parola che definisca il contrario della solitudine, ma se ci fosse potrei dire che è quello che voglio nella vita. Quello che sono grata e felice di avere trovato a Yale, e che ho paura di perdere domani, quando ci sveglieremo dopo la consegna delle lauree e lasceremo questo posto.

Non è proprio amore, e non è proprio comunione; è solo questa sensazione che ci siano persone, tantissime persone che stanno facendo questa esperienza insieme. Che sono in squadra con noi. Quando il conto è pagato e restiamo al tavolo. Quando sono le quattro del mattino e nessuno va a dormire. Quella sera con la chitarra. Quella sera che non riusciamo a ricordare. Quella volta in cui abbiamo fatto, girato, visto, riso, sentito. I cappelli.

Yale è piena di piccoli cerchi che tracciamo intorno a noi. Gruppi musicali a cappella, squadre sportive, convitti, società, club. Questi gruppetti ci fanno sentire amati e protetti e parte di qualcosa, perfino nelle notti più solitarie, quando torniamo barcollando ai nostri computer: single, stanchi, svegli. Non avremo tutto questo il prossimo anno. Non vivremo nello stesso isolato dei nostri amici. Non saremo sommersi dai messaggi di gruppo.

Questo mi spaventa. La cosa che più mi spaventa non è trovare il lavoro, la città o il compagno giusto, ma l'idea di perdere questa rete che ci circonda. Questo sfuggente, indefinibile contrario della solitudine. La sensazione che provo in questo momento.

Ma chiariamo una cosa: gli anni migliori della nostra vita non sono dietro di noi. Fanno parte di noi, e sono destinati a ripetersi quando cresceremo, quando ci trasferiremo a New York e ce ne andremo da New York, quando desidereremo vivere o non vivere a New York. A trent'anni vorrò dare delle feste. Vorrò divertirmi quando sarò vecchia. La nozione stessa dei migliori anni si basa su formule stereotipate del tipo «avrei dovuto...», «avrei voluto...», «se solo avessi...».

Certo, ci sono cose che vorremmo avere fatto: le nostre letture, quel ragazzo in mensa. Siamo i critici più severi di noi stessi e ci vuol poco a deluderci. Basta dormire troppo. Procrastinare. Prendere scorciatoie. Più di una volta ho ripensato a me stessa al liceo e mi sono detta: come facevo? Come riuscivo a impegnarmi tanto? Le nostre insicurezze private ci seguono e ci seguiranno sempre. Il fatto è che siamo tutti così. Nessuno si sveglia quando vorrebbe. Nessuno ha fatto tutte le letture assegnate (tranne, forse, i pazzi che vincono i premi...). Abbiamo questi standard irraggiungibili e probabilmente non saremo mai all'altezza della versione perfetta di noi stessi che fantastichiamo per il futuro. Ma non ci vedo niente di male.

Siamo così giovani. Siamo così giovani . Abbiamo ventidue anni. Abbiamo un sacco di tempo. A volte c'è questa sensazione che si insinua nella nostra coscienza collettiva mentre siamo da soli nel nostro letto dopo una festa, o mentre riponiamo i libri perché abbiamo deciso di lasciar perdere e uscire: che in qualche modo sia troppo tardi. Che in qualche modo gli altri siano più avanti di noi. Più compiuti, più specializzati. Più sulla strada giusta per salvare il mondo, in qualche modo, per creare o inventare o migliorare. Che ormai sia troppo tardi per INIZIARE un inizio e che dobbiamo accontentarci della continuità, del dopo laurea.

Quando siamo arrivati a Yale c'era questo senso di possibilità. Questa energia potenziale immensa e indefinibile. Ed è naturale avere l'impressione che sia scivolata via. Non avevamo mai dovuto scegliere e all'improvviso ci è toccato farlo. Alcuni di noi si sono messi a fuoco. Alcuni di noi sanno esattamente cosa vogliono e sono sulla strada per ottenerlo: si sono già iscritti a medicina, lavorano nella ong perfetta, fanno ricerche. A voi tutti dico: congratulazioni e andate al diavolo.

La maggior parte di noi, invece, è un po' smarrita in questo mare di materie umanistiche. Non sappiamo che strada stiamo seguendo né se abbiamo fatto bene a imboccarla. Se solo mi fossi laureata in biologia... Se solo mi fossi interessata al giornalismo fin dal primo anno... Se solo avessi fatto domanda per questo o quello...

Ciò che dobbiamo tenere a mente è che possiamo ancora fare qualsiasi cosa. Possiamo cambiare idea. Possiamo ricominciare da capo. Seguire una specialistica o provare a scrivere per la prima volta. L'idea che sia troppo tardi per fare qualcosa è comica. È ridicola. Ci stiamo laureando al college. Siamo così giovani. Non possiamo, non dobbiamo perdere questo senso di possibilità perché alla fine è tutto quello che abbiamo.

Un venerdì notte, durante l'inverno del mio primo anno, rimasi stordita e confusa quando i miei amici mi telefonarono per dirmi di raggiungerli all'Est Est Est. Ancora stordita e confusa, mi incamminai verso l'SSS \, forse il punto più lontano del campus. L'assurdo è che solo dopo essere arrivata alla porta mi domandai come e perché i miei amici fossero nell'edificio amministrativo di Yale a fare festa. Ovviamente non c'erano. Ma faceva freddo, e per qualche ragione il mio tesserino funzionò, così entrai nell'SSS per controllare il telefono. Dentro era tranquillo, il legno vecchio scricchiolava e la neve si vedeva a stento oltre i vetri colorati delle finestre. Allora mi sedetti. E alzai gli occhi. Osservai la stanza enorme in cui mi trovavo. Quel posto in cui migliaia di persone si erano sedute prima di me. E da sola, di notte, nel bel mezzo di una bufera del New Haven, mi sentii straordinariamente, incredibilmente al sicuro.

Non c'è una parola che definisca il contrario della solitudine, ma se ci fosse direi che è come mi sento a Yale. Come mi sento ora. Qui. Con tutti voi. Innamorata, impressionata, umile, spaventata. Ed è una cosa che non dobbiamo perdere.

Stiamo facendo questa esperienza insieme, 2012. Vediamo di cambiare qualcosa in questo mondo.

© 2015 Mondadori Libri

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica