Bastano tanti «like» sui social per fare un buon libro?

Ecco quanto contano gli elogi dei fan e le stroncature dei colleghi sul web

Bastano tanti «like» sui social per fare un buon libro?

Si può stroncare preventivamente un libro non ancora uscito? Il buonsenso farebbe pensare di no. Simonetta Sciandivasci, sul Foglio, lo ha fatto. Almeno secondo Christian Raimo, autore del libro preventivamente stroncato, che accusa: «I testi si giudicano dai testi». Vero.
Solo che, la presunta stroncatura preventiva, non è una stroncatura. Perché non è una recensione del libro, ma una riflessione sul ruolo del romanzo e dei romanzieri sui social network.
Questi i fatti: Raimo inizia a scrivere status su Facebook che hanno come protagonista un professore di filosofia cialtrone che perseguita i suoi studenti. Il risultato è divertente, e il successo, in termini di «mi piace», lo spinge a continuare i post per raccoglierli in un libro, in uscita a gennaio.
Vanni Santoni, sul Corriere della sera, riporta la notizia, già nota da tempo negli ambienti della scena letteraria romana, parlando addirittura di un nuovo fenomeno tutto italiano: l'«autofiction finzionale» (come se l'autofiction potesse essere «non finzionale»).
Riflessione della Sciandivasci: Raimo, nel 2010, sosteneva sul blog Nazione Indiana che «ormai gli editori si fidano di un riconoscimento facile da parte di un'industria culturale in cerca di autori innocui», ma con questo libro fa esattamente ciò che critica. Tesi conclusiva (condivisibile, ma non dimostrabile): mentre tutti piangevano la morte del romanzo, Jonathan Franzen, autore antisocial, lo resuscitava scrivendo Libertà, quindi basarsi sui «mi piace» non fa scrivere grandi libri.
Io, di base, non amo i social network. Ma non per questo credo che usarli come cartina di tornasole per capire le potenzialità del proprio lavoro sia necessariamente un male. O meglio, io credo che lo sia, ma il meccanismo dei piloti delle serie tv americane e dei feedback nel corso delle stagioni, da parte di campioni di pubblico rappresentativi per valorizzare linee di trama, approfondire o sopprimere personaggi e regalarci i capolavori narrativi a cui siamo abituati, impone cautela. Cioè, non vedo perché stroncare l'idea a priori: quello che conta è il risultato.
Il problema non è la scrittura sui social, ma la scrittura da social e per i social, deformata dal consenso immediato. Su Facebook, infatti, si è scatenata la polemica sulla scia di un secondo articolo del Garantista, sguaiatamente critico sull'operazione. Ci si sono buttati a pece scrittori, addetti ai lavori, lettori, in un fiorire di post e contropost sempre più lunghi, ammorbanti, interessati. Un berciare isterico in cui s'incuneano incomprensioni di fondo e sciocche pedanterie, che mancano il punto iniziale: perché non tentare di scrivere capolavori invece che scavare il fondo nel barile del riciclo?
Nel guazzabuglio hanno tutti molte ragioni (come Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci, che rileva giustamente «Importa che siano passati per Facebook prima di finire in volume? Un fico secco.

Importa che abbiamo a che fare con la vita vera degli autori? Anche meno») ma nessuno ha ragione. Perché nel pollaio di Facebook lo spazio per i capolavori è tutto da dimostrare, ma la confusione delle discussioni e dei post, autoreferenziali e retorici, è certa. Quella sì, da stroncare preventivamente.

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