Londra -Ancora una volta l'epistolario di Samuel Beckett smentisce la fama di recluso che si era formata intorno alla sua figura. Le molte lettere raccolte nel terzo volume della corrispondenza, numerose in francese, le altre in inglese, testimoniano del profondo bisogno dello scrittore di circondarsi della «intensità e molteplicità dei suoi contatti» al fine di trasmettere pensieri, progetti, intenzioni aspirazioni ed esprimere gli immancabili dubbi sul proprio lavoro. Il terzo volume dell'epistolario, fresco di stampa, The Letters of Samuel Beckett Volume III: 1957-1965 a cura di G. Craig, M. Dow Fehsenfeld, D. Gunn, L. More Overback (pagg. 700, sterline 30) conferma il valore letterario di queste lettere che per un totale di 15.000 verranno raccolte in quattro volumi di un migliaio di pagine ciascuno in un progetto altamente scientifico promosso dalla Cambridge University Press.
In questo periodo Beckett si divide fra Parigi dove ormai abita da anni e Ussy-sur-Marne, il suo rifugio in campagna. Il successo di Aspettando Godot (1953) lo sommerge di ammiratori traduttori giornalisti («quei bastardi») attori e registi, «gente, firme, sorrisi, confusione di nomi». Sono gli anni in cui Harold Pinter lo incontra per la prima volta per subirne duratura influenza, e Beckett incontra Buster Keaton che lo influenzerà a sua volta, anni in cui sposa la sua compagna di sempre Suzanne Deschevaux Dumesnil pur stabilendo un rapporto sempre più stretto con la sua amica e confidente Barbara Bray in Inghilterra. Sulla scia del successo di Aspettando Godot in questi otto anni Beckett si butta a capofitto nel teatro sperimentando anche nuovi mezzi e in questi anni nascono le sue opere più conosciute, Finale di partita , Giorni felici , L'ultimo nastro di Krapp , Tutti quelli che cadono e Ceneri per la radio, Parole e musica , Commedia , il cortometraggio Film con Keaton, Di' Joe per la televisione e la novella Comment c'est , Com'è.
L'economia espressiva delle sue opere si riflette nella concisione delle lettere, in una miniera di dettagli sul suo lavoro, di risposte pragmatiche ai quesiti che pongono i suoi registi favoriti, Alan Schneider in America, George Devine del Royal Court di Londra, e Donald MacWhinnie della BBC. Non tutti i registi sono di suo gradimento, talvolta sogna i registi tedeschi «a cui sparerei nelle palle ogni cinque minuti fino a che non perdono il gusto di migliorare gli autori», scrive.
Per disposizione dello scrittore stesso le lettere selezionate sono tutte concentrate sul suo lavoro, l'uomo Beckett vuole rimanere elusivo, ma emerge in ogni rigo. Dalle lettere a Barbara Bray, che non escludono la presenza di Suzanne, si deduce il triangolo di Commedia sulla fragilità di tre personaggi, sui loro sforzi di amarsi l'un l'altro, e di resistere.
In lettera dopo lettera Beckett discute il suo lavoro mentre distrugge bozza dopo bozza ricominciando sempre da capo. Comment c'est , lo considera un testo impenetrabile ma rappresenta il primo passo importante per uscire dall'impasse in cui è precipitato dopo aver completato la trilogia de L'Innominabile . Riprende a scrivere dopo anni di siccità, scrive. Spesso non sta bene, la vista lo tortura, «due ore di emicrania e semicecità, vado avanti nonostante tutto, non ho bisogno di avere una visione chiara di quello che scrivo». All'attore Patrick Magee nel 1962 già scrive: «Vado avanti con diminuita impetuosità e spero di stendermi presto e rifiutare di muovermi». Ma più cresce la fama, più è inondato di richieste di spiegazioni e soluzioni che non è nel suo temperamento di dare, come a chi gli chiede un termine definitivo in inglese per un concetto che desidera mantenere ambiguo. Mentre dispensa consigli e spiegazioni non permette mai al lettore di dimenticare a lungo che questi sono solo parziali, provvisori, e che ciò che conta realmente è altrove, sfugge a ogni semplice definizione. Del rapporto con il suo lavoro parla esplicitamente come non aveva mai fatto prima: «Ne sono un po' all'oscuro e vado a tastoni, finché dura, e nient'altro», scrive a un critico irlandese che gli chiede luce. E al critico e medico tedesco Gottfried Büttner la mette così: «Sono del tutto incapace di parlare del mio lavoro. Non lo vedo e non lo vivo che dentro di me. E lì fa sempre buio, e in quel buio non è mai questione di diagnosi, o prognosi, o cura». Alla fine del volume mancano due anni al Premio Nobel.
A un aspirante romaziere, Matti Megged, scrive come monito: «Scrivere per alcuni di noi suppongo - ma certo non per tutti - è solo possible all'estremo, in completo désespoir de cause e a una profondità dove la nostra vita non solo non c'è più, ma non c'è mai stata».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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