La Capria, la tristezza fa 90 e si regala un po' d'allegria

Tra una libellula e la «controllata eleganza e liberata energia» del suo volo e uno scrittore impegnato sulla sua pagina, secondo Raffaele La Capria c'è un delicato parallelismo: anche lo scrittore si ferma, arretra, oscilla, si accampa a mezz'aria, e ha bisogno di piccole ali traslucide. Con questa similitudine, lo scrittore napoletano che festeggia oggi i novant'anni dichiara la propria fede poetica nella letteratura e afferma la propria appartenenza a una famiglia particolare di autori, quelli per cui valgono soprattutto la leggerezza, la grazia, l'incanto, anche quando si sposa a disincanto e ironia.
Ho letto Doppio misto (Mondadori, pagg. 132, euro 10) in questa prospettiva. Eppure La Capria, al suo esordio folgorante, fu l'autore che meglio di tanti altri seppe parlare ai giovani lettori di allora del tema della ferita del vivere, della impossibilità di una espressione piena di sé, dell'inutilità di qualunque ricerca di verità. Ferito a morte, del 1961, resta il suo capolavoro. Confesso che lo scoprii allora non su consiglio di amici letterati, ma di un amico torinese mondanissimo, figlio della marchesa Idalberta di Gazzelli e San Sebastiano, che con la esagerazione sprezzante dei mondanissimi me lo impose come l'unico libro che valesse la pena di leggere al mondo. Probabilmente, tra i protagonisti del romanzo, era stato più colpito dalla figura di impareggiabile leggerezza di Sasà che da quella problematica e ferita di Massimo, che trova nel mare un rifugio di luce sinché anche il mare, come il suo inconscio, non appare inquinato, impraticabile.
Invece arrivai da solo e per vie squisitamente letterarie ad Amore e psiche, uscito un decennio più tardi, un romanzo nuovo nella forma, ambizioso nei contenuti, incentrato sulla difficoltà di definire la normalità e l'amore nelle loro varie, oscure componenti. Era ancora un libro di crisi, di una ferita senza scampo e senza prospettive, non raccontabile. Da allora, La Capria non ha più affrontato il genere romanzo nella sua complessità. Come se la sua ferita più profonda fosse quella che riguardava la costruzione del romanzesco, la pratica dell'immaginario. Guarita quella, gli è rimasta la vita e il suo scorrere, gli amici, i viaggi, le riflessioni, la memoria, il mare. Ha scritto racconti, sceneggiature, diari, saggi di impegno civile, saggi di analisi letteraria. Rimanendo fedele ai suoi temi, che qui, in Doppio misto, ritornano tutti con grande forza emblematica.
I suoi ricordi del soggiorno americano del 1957, ad Harvard, sono esemplari. Ci affascina subito l'immagine del giovane scrittore, già in crisi matrimoniale, che sulla nave cede alle lusinghe di una «storietta d'amore» con una passeggera sposata. Di lei sappiamo soltanto che si concede gradualmente e appassionatamente, e lui la chiama soltanto My Fair Lady, dal motivo che si sente suonare continuamente nei saloni del transatlantico. La prosa qui danza, e la scena del bacio obliquo, deviato dalla bocca alla guancia tra My Fair Lady e il marito sulla banchina a New York si ripete, musicalmente, al ritorno dello scrittore a Napoli con il bacio perduto tra i capelli e il collo della moglie. Ci sono strepitose osservazioni mondane, come quella sul modo di ridere di Henry Kissinger, o sulle presentazioni a casa dei Colchan, grandi produttori di sanitari, descrizioni acute dell'estate di New York, ritratti felicissimi come quello della vecchietta dal cappellino rosa.
Ma dove lo scrittore dà il meglio è non a caso nelle pagine sul mare: il mare ghiacciato di Ipswich, confuso sulle prime da lontano con il barbaglio di un parcheggio da migliaia di auto, quell'oceano torpido, verdastro, senza miti e senza storia, quello che poi dalla nave gli apparirà «senza tenerezza di contrasti e sfumature», «disumano e tremendo. E, per contrapposizione, il Mediterraneo, antico, umano e popolato dagli dèi. Ritrovandolo al passaggio dello stretto di Gibilterra, l'autore ha la sensazione trepidante e gioiosa di essere entrato nella pace del primo mattino del mondo. In altre pagine del libro la cifra è più commossa, come nella rievocazione dell'amico Giovanni dalla esistenza solcata da cultura, snobismo e dolore e della sua donna che vive in un mondo che chiama per nome l'Aga Khan, Onassis, Jacqueline Kennedy, e che traduce con un privatissimo «Adoro!» il più comune francese «J'adore».
E ancora diversa, quasi raccontata con una divertita smorfia autoironica, di autoassoluzione, è la storia di una passione feticistica per il piede femminile, dall'infanzia alla vecchiaia.

Se per Thomas Mann, borghese per eccellenza, il matrimonio è essenzialmente «accettazione della vita», La Capria legge nel matrimonio amore, disamore, compromesso, sofferenza, inadeguatezza, menzogna: si legge nelle pagine crudelmente dolci della fine del libro, dove riaffiorano i temi di quella ferita eterna che resta, medicata ma non vinta, in un autore così votato al volo della libellula, e che ha scelto di raccontare la sua vita, a suo modo, con civiltà, sommessa ironia, grazia naturale, e quel tanto di distrazione di chi è consapevole sempre che «la vita è ciò che accade mentre ci occupiamo d'altro».

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