Che rimpianto quel Mugello pieno di industrie e capannoni

Simona Baldanzi racconta la fine del sogno anni Ottanta dei mobilifici toscani. La sua scrittura ricorda Collodi, la nostalgia per l'Italia del fare i libri di Nesi e Pennacchi

Piacerà a chi è piaciuto Edoardo Nesi, Simona Baldanzi. La stessa regione, la Toscana, la stessa attenzione, per non dire ossessione, verso la crisi che schiaccia fabbriche e miete posti di lavoro. Ma con in più una dolcezza che l'aspro Nesi, se ce l'ha, la nasconde benissimo. Dolcezza femminile e filiale siccome Il Mugello è una trapunta di terra (Laterza) ha due protagonisti dichiarati, la subregione tra Fiesole e la Futa e il grande mobilificio Emmelunga, più un protagonista occulto, Baldanzi padre. Che Baldanzi figlia chiama toscanamente babbo. Nel libro i toscanismi abbondano: l'asino è il ciuco, un lumacone diventa il martinaccio e la camera dei ragazzi anziché cameretta viene chiamata camerina. A parte il martinaccio che, se ho controllato bene, in Pinocchio non c'è, le altre sono parole collodiane e anche questo contribuisce al piacere del testo, che supera di parecchio gli evidenti dispiaceri del contenuto.

Innanzitutto, come si diceva, la crisi, raccontata attraverso la parabola del mobilificio Emmelunga sito in Barberino di Mugello, un missile lanciato nel cielo speranzoso dell'Italia anni '80, miseramente precipitato nel 2010 per colpa di Cina ed Ikea. La Baldanzi intervista con premurosa, simpatetica attenzione gli ex dipendenti, gli impiegati, i magazzinieri, i montatori dalla dura vita, però vita. «Il boom dei consumi riguardava ogni cosa, ogni casa. Il lavoro non era un miraggio, non era una guerra di curriculum, di appuntamenti per strazianti colloqui. C'è stato un momento che c'erano annunci da tutte le parti. Arrivava gente che aveva preso un furgoncino al disfacimento, un cacciavite in mano e si presentava come montatore». Davvero le aziende italiane erano così euforiche nel 1985? Non sono passati nemmeno trent'anni e sembrano tre secoli, se si pensa a come nel frattempo si sono ridotti consumi e lavoro viene voglia di sbattere la testa contro il muro. O di prendere a sberle chi ha osato liquidare come superficiale, volgare, l'Italia pre-Tangentopoli che fu invece l'ultima Italia del benessere diffuso e della sovranità nazionale (il trattato di Maastricht, l'inizio della fine della nostra indipendenza, venne firmato da Giulio Andreotti nel 1992). Ci fosse oggi una Milano da bere, una Toscana da gozzovigliare... Merito del libro è la trasformazione in epica di quello che a qualcuno sembrò solo consumismo, l'acquisto di un salotto pubblicizzato in televisione: «Anche noi figli di operai, in pieni grassi e sfacciati anni '80, avevamo la stanza simbolo del tempo libero e dello status raggiunto. I miei comprarono il divano di pelle con ben due poltrone». Il bello è che queste parole sono pronunciate da un'autrice molto evidentemente di sinistra, però onesta e vigile, non accecata dal mito mortifero della decrescita. Simona Baldanzi ha le carte in regola non dico per vincere lo Strega come Nesi (libro ed editore sono troppo piccoli) ma per entrare nel giro delle patrie democratiche lettere. Ad esempio scrive Resistenza, Liberazione e Costituzione con tutte le maiuscole richieste. E addirittura cita con devozione Piero Calamandrei, il giurista partigianista che credevo, o forse speravo, del tutto dimenticato. Ma non importa, è folclore toscano.

Così come è folclore toscano il pellegrinaggio agnostico che si frappone ai capitoli dedicati al mobilificio fallito: una scarpinata dalla tomba di don Milani a quella di don Dossetti, centoventi chilometri a piedi dal Mugello all'Appennino bolognese. Non è la parte più interessante del libro ma a qualcosa mi è servita, a ricordarmi l'insulsaggine di quei due preti idolatri, idoli di chi non va a messa, adoratori del vitello di carta ossia della Costituzione che sembra citassero più frequentemente del Vangelo. «Don Milani diceva la messa in dieci minuti, tutto il resto del tempo lo impiegava per i suoi ragazzi» scrive la Baldanzi, credendo di elogiarlo. Ma un prete che non dà a Dio quel che è di Dio (in questo caso, una messa di giusta lunghezza) finisce fatalmente col concedere troppo a Cesare (in questo caso, ad alcune mode ideologiche degli anni Cinquanta e Sessanta).

Bisogna portare pazienza con questa scrittrice della montagna toscana, democratica epperò non credo proprio renziana, che oltre a ricordare Collodi e Nesi ha pure qualcosa di Antonio Pennacchi, altro post-operaio di scrittura leale.

Quanto mi commuove quando, citando Modugno in un capitolo dedicato all'ascesa del mobilificio, ammette la propria nostalgia per quel capitalismo sgangherato e selvaggio che spandeva prosperità sul territorio: «Un sogno così non sarebbe tornato mai più».

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