Così Zincone fu epurato nel Corriere dominato da massoni e comunisti

Da direttore del Lavoro salvò la vita al giudice D'Urso rapito dalle Br. Quando tornò in via Solferino si trovò in difficoltà...

Così Zincone fu epurato nel Corriere dominato da massoni e comunisti

Caro Vittorio, ho letto le belle parole che hai dedicate a ricordare uno dei nostri più grandi colleghi e amici, Giuliano Zincone. Non ti dispiacerà se vi aggiungo alcune postille atte a ristabilire una verità storica.

Un bellissimo ricordo di Giuliano Zincone è uscito lunedì sul Corriere della Sera che per tanti anni si è onorato di averlo tra le sue firme più prestigiose, a opera di Francesco Cevasco. Bellissimo e anche molto coraggioso: perché Cevasco dice apertis verbis alcune verità scomode, di quelle che non giova a nessuno ricordare; onde va ringraziato anche il Direttore Ferruccio de Bortoli che ne ha avallato la pubblicazione.

Cevasco ricorda il periodo nel quale Zincone venne prestato (adopero il termine non a caso) al glorioso quotidiano socialista genovese Il lavoro per fare il direttore: un favore che il Corriere della Sera fece all'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, genovese, appunto. E dò la parola al nostro collega Francesco: «Zincone lo rimette a posto (...) Ma esagera: continua a fare il giornalista vero e onesto. E sfida la P2. Che oggi ci fa ridere, ma allora era un grosso centro di potere, vero potere. E Zincone salva una vita umana. Quella del giudice Giovanni D'Urso sequestrato dalla Brigate Rosse nel dicembre 1980. Quei deficienti delle Br, in cambio della pubblicazione su un giornale di un comunicato dei detenuti nelle carceri speciali di Palmi e Trani, erano disposti a liberare il magistrato anziché ucciderlo. Zincone lo pubblica, quel comunicato (...). Zincone “frega” le Brigate rosse, ma la P2, che non voleva “cedere ai terroristi”, “frega” lui: lo caccia dalla direzione del Lavoro».

Per chi non ha vissuto quei giorni, ricordo che la cosiddetta «linea della fermezza» venne imposta dal Partito comunista italiano all'epoca del rapimento di Aldo Moro: laddove Bettino Craxi risultò sconfitto col propugnare la linea di opinione, e comportamento, opposta, che cioè una vita umana valesse il prezzo di una trattativa.

Ora, il punto essenziale da aggiungere alle parole di Cevasco è che all'epoca del rapimento del giudice D'Urso si era realizzata la saldatura del Pci con la loggia massonica P2: insieme dominavano e gestivano il Corriere della Sera.

Giuliano Zincone sapeva benissimo che salvando la vita al giudice avrebbe perduto il posto di direttore del Lavoro. Ma essendo stato prestato al giornale genovese, aveva un contratto che stabiliva il «diritto potestativo» in capo a lui di rientrare automaticamente al Corriere con le funzioni di inviato e fondista che ricopriva prima. Occorre ancora sapere che dopo il caro e grande Franco Di Bella, il quale aveva dovuto lasciare la direzione del Corriere per aver ingenuamente aderito egli stesso alla P2, del che era stato costretto dalla proprietà, essa sì piduista e dalla P2 ricattata collo stringere i cordoni della borsa bancarî, venne nominato direttore il giornalista Alberto Cavallari. Costui accettò di passare per una procedura infamante: il Pci attraverso le sue longae manus, pretese che ricevesse una patente di antifascismo rilasciata da una personalità notoriamente antifascista. Ricordo che Enzo Biagi abbandonò il Corriere per lo sdegno.

La P2 «antifascista»? Ai giovani che forse ci leggono sembrerà un paradosso, ma non certo a noi. Cavallari, che si proclamava «laico, democratico, antifascista» (che fa il paio con «orrore, sdegno, esecrazione»: e quanto ne ridevamo con Giuliano!), e che si proclamava, soprattutto, antipiduista, era de facto il direttore piduista molto più di Di Bella.

Così Cavallari, violando ogni regola di diritto (nihil novi sub sole, è vero, caro Vittorio?) impedì il ritorno al Corriere di Giuliano Zincone: che venne debolissimamente difeso dall'organismo sindacale, allora controllato dal Pci. E avrebbe fatto fuori Zincone, il Cavallari, dico, se, uomo odiatore del genere umano, malmostoso, affetto da turbe caratteriali, non avesse deciso di farne fuori troppi, al Corriere. Ma, appunto, accecato dall'odio, non ebbe l'accortezza di Orazio Coclite che, al ponte Sublicio, affrontò i nemici uno per uno: volle farli fuori tutti insieme. E così per grazia della provvidenza, si scornò.

Giuliano Zincone rientrò al Corriere quando, sconfitta la P2 e il Pci, venne nominato quel grande direttore e sovrano fondista che è Piero Ostellino: e riprese a scrivere con un «fondo» che principiava così: «Ieri dicevamo». Citazione di quel frate professore all'università di Salamanca che, perseguitato dall'Inquisizione per lunghi anni, ritornò un giorno sulla sua cattedra principiando «Heri dicebamus».

Giuliano durante la persecuzione manifestò uno stoicismo antico e dopo un filosofico distacco dalla vicenda e persino verso quello sventurato di Cavallari (ché sventurato è chi è affetto da odium humani generis e vive nel continuo sospetto e nel complesso di persecuzione tipico del servo: onde non si rendeva conto che perseguitare gli avversarî aperti, come te e, nel mio piccolo, me, non serviva a niente), un filosofico distacco che gli fa immenso onore.

E infatti non voleva che la storia venisse rievocata. Ma non credo dispiacergli se lo faccio io: affinché questa storia non si ripeta, non dico una sola volta, che già s'è ripetuta, ma almeno che non si ripeta più. Che ne pensi?

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