Dante Alighieri, un vino di 700 anni

Tra Toscana e Veneto, l'esilio del sommo poeta e il nettare di Bacco

Dante Alighieri, un vino di 700 anni

Che sapore ha il vino di Dante Alighieri 700 anni dopo la sua morte? Il 25 marzo 1300 il sommo poeta intraprendeva il suo viaggio nell’aldilà. Il 14 settembre 1321 si spegneva a Ravenna a causa di una malaria contratta nelle malsane Valli di Comacchio al ritorno da Venezia. Dalla crasi tra queste date nasce il “Dantedì” di oggi, 25 marzo 2021. “Grande emozione certamente. Ho appena parlato con il presidente di una delle innumerevoli società Dante Alighieri sorte nel mondo, quella di San Rafaèl in Argentina. Ma credo sia solo l’inizio di giorni molto intensi”. In effetti il telefono della contessa Massimilla Serègo Alighieri, discendente di ventunesima generazione di Dante Alighieri. Produttrice vitivinicola, sommelier e altri svariati interessi culturali. Elegante inflessione veneta.

Contessa, ha risciacquato i panni linguistici nell’Adige più che nell’Arno…

“Come noto Pietro e Iacopo Alighieri (i figli di Dante, ndr) vissero a Verona, avevano seguito il padre nell’esilio. Pietro il 24 aprile 1353 acquistò ‘due pezze di terra’, così recitano i registri dell’epoca, nelle Possessioni del Casal dei Ronchi, in Valpolicella. Ancora oggi è la tenuta in cui vive la famiglia Serègo Alighieri”.

La vita del sommo poeta fu tra la natìa Toscana e il Veneto, terre di grandi vini…

“Sì, ma le sue peripezie furono figlie della politica, dell’esilio maturato per ragioni politiche. Il vino c’entra poco in questo passaggio”.

La Divina Commedia non ha molti versi sul vino. Più metafore funzionali, no?

“Lui non era certo un bevitore né un mangiatore. Era un consumatore misurato, come testimoniato del resto dal suo primo biografo, Giovanni Boccaccio”.

Lui chi, Dante?

“Il sommo poeta lo indichiamo così in famiglia. Non per un eccesso di confidenza ma, al contrario, per pudore. Già il suo nome viene citato moltissimo e troppo spesso fuori contesto. Come suoi discendenti non vogliamo essere partecipi di quest’usurpazione”.

Un passo del Purgatorio dantesco recita: “e perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola”. Come legge questa metafora enologica?

“Sono i versi da 76 a 78 del Canto XXV del Purgatorio. Quasi a testimoniare della sacralità del vino. Ma il lettore viene ammonito nei versi da 121 a 123 del Canto XV, sempre del Purgatorio: ‘ma se’ venuto più che mezza lega/ velando li occhi e con le gambe avvolte,/ a guisa di cui vino o sonno piega?’. I vinti dal vino che non raggiungono la verità sono i bevitori irresponsabili, coloro che sono privi di cultura del vino”.

Per questi 700 anni danteschi, da sommelier che bottiglia stapperebbe?

“Sarebbe scontato dire un Amarone della Valpolicella. Ma più che stappare una bottiglia, almeno oggi preferirei fermarmi a riflettere su una pagina di grande e immortale letteratura italiana”. Facciamo il viaggio di Dante a ritroso, spostiamoci dalla Valpolicella alla natìa Firenze. Qui un accento inconfondibile declama: “…ebbe la Santa Chiesa e le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno le anguille di Bolsena e la Vernaccia…”. Massimo Castellani sgrana versi danteschi come fossero una preghiera. E non dev’essere così inusuale per un fiorentino, delegato dell’Associazione Italiana Sommelier a Firenze e ambasciatore del Chianti Classico.

Questi versi cosa sono, Castellani?

“Divina Commedia, Seconda Cantica, Canto 24, versi da 22 a 24. Nella sesta cornice del Purgatorio Dante incontra i golosi. Tra essi c’è Papa Martino IV, 189esimo successore di Pietro, asceso al Soglio pontificio nel 1281 e morto nel 1285. Facile immaginare come…”

Come morì Papa Martino IV?

“Furono la sua ghiottoneria, la sua ingordigia a portarlo nella tomba. L’ex tesoriere della cattedrale francese di Tours, diventata il Torso dantesco, era pazzo per le anguille. Le annegava nella Vernaccia e, quando erano ben impregnate di nettare di Bacco, le arrostiva. Ma nemmeno il Papa potè nulla contro gli eccessi di grassi alimentari accumulati da quella passione sfrenata per le anguille! Pensi che alla sua morte fu coniato quest’epitaffio: ‘Godano le anguille, perché qui giace morto colui che le scorticava quasi fossero ree di morte!’. Almeno, così pare”.

Ma che c’entrano le anguille e la Vernaccia di Papa Martino con Dante?

“C’entrano eccome! Perché sono la più compiuta citazione enologica della Comedìa e rendono l’idea del panorama enologico della Toscana agli inizi del XIV secolo, quando Dante compose la sua opera somma”.

Quali vini si bevevano in Toscana ai tempi di Dante Alighieri?

“Certamente la Vernaccia di San Gimignano, già citata nei documenti gabellari del comune nel 1276. Dante in qualità di ambasciatore di Firenze aveva tenuto lì un famoso discorso l’8 maggio 1299 per incitare i sangimignanesi ad aderire alla Lega guelfa in Toscana”.

Il toscano per antonomasia che esalta un vino bianco! Dante bastian contrario fino in fondo?

“Attenzione: a quei tempi il vino bianco era assimilato ad ambienti socialmente nobili, mentre il rosso era più delle osterie. Ma non dobbiamo pensare al vino bianco come lo intendiamo e degustiamo oggi. La Vernaccia di Dante era più simile al vin santo, invecchiava nelle botti di legno e quindi acquisiva struttura. È certo però che già all’epoca la Toscana fosse terra di rosso, Sangiovese in primis”.

Ma era una Toscana enologica ancora di là da venire, no?

“Beh, in realtà già erano in embrione alcune grandi dinastie enologiche. Intanto Dante a Firenze conosceva l’Arte dei vinattieri, che si era costituita come corporazione autonoma dal 1288. Giovanni di Piero Antinori, tanto per citare un nome, vi aderisce nel 1385, qualche decennio dopo la morte del sommo poeta. Berto de’ Frescobaldi produceva vino dal 1308, quindi coevo di Dante. I Ricasoli sono già proprietari del castello di Brolio dal 1141. Nel 1398 c’è la famosa citazione della lettera di cambio “E de’ dare, a dì 16 diciembre, fiorini 3 soldi 26 denari 8 a Piero di Tino Riccio, per barili 6 di vino di Chianti ....li detti paghamo per lettera di Ser Lapo Mazzei” cioè il notaio Ser Lapo Mazzei, avo dell’omonima dinastia enologica e considerato il padre del Chianti Classico”.

Ma Dante che rapporto aveva con il vino?

“Era un moderato bevitore, cui un profondo sentimento religioso impediva gli eccessi. Infatti Ciacco, “uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai” come scrive Boccaccio, a Dante sta simpatico. Ma comunque lo mette tra i golosi del Terzo Cerchio dell’Inferno. La gola, il cedimento ai piaceri della tavola, per Dante sono un peccato mortale”.

Benchè esule, Dante è un fiorentino nel midollo?

“Dante Alighieri è il fiorentino per eccellenza. Il Dante politico è figlio della Firenze del suo tempo e delle sue roventi passioni. Con la Divina Commedia si toglie qualche sassolino dalla scarpa e colpisce i suoi nemici. Ma non viene mai meno la sua amarezza per l’esilio che lo tiene lontano dalla sua terra, cui aspira di tornare.

Ancora oggi il Comune di Firenze fornisce a quello di Ravenna l’olio combustibile per la fiamma permanentemente accesa sulla tomba del sommo poeta”. In un certo senso, il “ghibellin fuggiasco”, come Ugo Foscolo definì Dante, ha trovato la sua solenne stabilità. Come eterno e straordinario contemporaneo degli italiani.

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