Daoud, algerino «ribelle» che si è guadagnato un Goncourt e una fatwa

Daoud, algerino «ribelle» che si è guadagnato un Goncourt e una fatwa

Un Goncourt di consolazione è pur sempre un Goncourt. Piuttosto, è sconsolante doverlo ricevere sotto gli occhi preoccupati (e preoccupanti) di due guardie del corpo. Soddisfazione e rammarico, quindi, si leggevano negli occhi dello scrittore Kamel Daoud quando, martedì scorso, ha ricevuto, nel solito ristorante Drouant di Parigi, questo Goncourt opera prima.

L'opera prima in questione è Meursault, contre-enquête , una sorta di seguito di Lo straniero di Albert Camus, uscito nel 1942. Da un pied-noir a un algerino a tutto tondo il passo è lungo, ma non troppo lungo per la gamba di questo giornalista prestato alla letteratura. Qui il narratore è il fratello di un personaggio del romanzo di Camus, l'«Arabo», ucciso appunto dal Meursault del titolo. Storia drammatica come quella dalla quale trae origine, al centro dell'opera di Daoud c'è la delusione degli algerini per la politicizzazione dell'islam. Tema ultra-contemporaneo, insomma. E a provarlo è stata, pochi giorni dopo la candidatura del libro al Goncourt «maggiore», nell'autunno scorso, la fatwa formulata dall'imam salafita Abdelfattah Hamadache Zeraoui, leader del Fronte del risveglio islamico. Da qui le guardie del corpo di cui sopra, triste corollario a una giornata di festa. Anche perché Meursault, contre-enquête è ispirato alla strage compiuta tre anni fa da un giovane musulmano nel Sud della Francia.

Non contento di aver «provocato» gli strali degli integralisti, Daoud durante un programma televisivo aveva pesantemente criticato il modo in cui molti musulmani, soprattutto nella «sua» Francia, vivono la propria religione, facendo di sé un pericoloso «apostata» candidato alla soppressione. «La rivolta è ciò che mi definisce - dice ora lo scrittore -. Io non sono un militante, sono uno che difende la propria libertà». Gli ha fatto eco, alla presenza del presidente della giuria Bernard Pivot, un lettore d'eccezione, Régis Debray: «Lei è un uomo in collera, ma non contro gli altri, bensì contro lei stesso, contro i suoi fantasmi. Lei assume il rischio di rivolgere le proprie parole contro se stesso. Lei ha rimpatriato Lo straniero nella sua cultura». Una bella immagine, quest'ultima, in linea con l'integrazione pacifica che oggi pare, nell'Occidente disorientato, più lontana di un miraggio nel deserto. «Quelli che difendono l'islam come pensiero unico - scriveva Daoud su Facebook nei giorni caldi seguiti alla condanna dell'imam - lo fanno spesso con odio e violenza. Coloro che si sentono e si proclamano di origine araba hanno la tendenza a farne un fanatismo piuttosto che un'identità gioiosa o una ricerca di radici foriere di raccolti. Quelli che vi parlano di costanti nazionali, di nazionalismo e di religione sono spesso aggressivi, violenti, pieni di odio, ombrosi, infrequentabili e miopi: vedono il mondo solo come attacchi, complotti, manipolazioni e trucchi dell'Occidente».

Ora dal suo

libro Philippe Berling trarrà uno spettacolo teatrale. E ora noi attendiamo l'auspicabile edizione italiana di un romanzo «in rivolta», lo sfogo di uno straniero in patria che ha molto da dire a compatrioti e altri stranieri.

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