Donare "pane e giochi" crea la comunità (e non è demagogia)

Paul Veyne dimostra come pagare opere pubbliche e spettacoli riesca a cementare popolo e istituzioni. Da Demostene al Colosseo

Il Colosseo
Il Colosseo

Nell'Atene del IV secolo a.C., torreggiava un leader con gli attributi: Demostene. Sulla sua bandiera era incisa a lettere di fiamma una parola: eleutherìa, libertà. Per difenderla, in politica estera ingaggiava duelli con le potenze rampanti, come la Macedonia di Filippo e di Alessandro il Grande. Ma i peggiori fendenti gli arrivavano dai nemici di parte, concittadini decisi a eliminarlo dalla scena pubblica. Sul ring dell'assemblea civica, nel contradditorio, non era facile stenderlo. La sua logica era un filo d'acciaio, con bagliori fulminei. I pilastri del carisma erano portamento e voce. Si faceva il fiato recitando i poemi mentre saliva di corsa le scalinate dell'acròpoli. Così gli avversari - tra i quali alcuni compagni di partito - ricorsero al capestro giudiziario. Gli imputarono il trafugamento di fondi pubblici, di cui era custode. Non c'erano prove certe della frode. Ma gli inflissero una multa di 40 talenti. Con un talento si pagava per un mese l'equipaggio di una nave da guerra, fatto di oltre 200 professionisti. Lo statista non poteva far fronte: si piegò all'esilio. Rientrò, ma ormai il suo momento magico era sfumato. I tentativi di sgretolarlo insistevano da anni. Nel 338 a.C. qualcuno propose di conferirgli la corona civica. Era un benemerenza per il servizio allo Stato. C'era un passaggio istituzionale: il voto dell'assemblea. Si scatenò la bagarre. Èschine, un anti-Demostene, descrisse il personaggio come incandidabile, e l'onore proposto una vergogna. «Caro Èschine - replicò l'uomo alla sbarra - se mi si chiede che bene io abbia fatto alla città, potrei parlare delle mie coregie, delle mie trierarchie, dei miei contributi straordinari; ho anche pagato il riscatto dei prigionieri di guerra e ho fatto azioni filantropiche. Nella mia vita pubblica e privata, non mi sono mai tirato indietro, quando avevo l'occasione di rendermi utile alla città. Da quando sono sceso in campo, il mio più grande beneficio allo Stato è di aver dato solo buoni consigli, e di non essere mai stato un demagogo». Su quest'ultimo punto, oggi parleremmo di populista. Quanto alla coregia, era l'allestimento di spettacoli pubblici; con la trierarchia si manteneva un'unità da battaglia, di tasca propria.

Il preambolo demostenico ci ha portato al dunque, al punto di partenza di un fenomeno storico e sociale fondante dell'antichità, che al capolinea opposto sfocia nel binomio panem et circenses, frumento gratis e porte aperte all'anfiteatro di Roma, dove i gladiatori si scannavano per la morbosa delizia di plebei e altolocati. Giovenale, il satirico che coniò l'endiadi diventata proverbio, vi scorgeva la droga politica con cui l'imperatore intontiva il suddito, ammassando la moneta più ambita dai despoti: il consenso cieco, muto, sordo. Ma è una visione di parte, semplificata dal livore.

Lo dimostra un possente saggio Il pane e il circo (Il Mulino, pagg. 678, euro 32) di Paul Veyne del Collège de France, storico che esplora il passato con i metodi della sociologia e dell'antropologia, per dissotterrare i piloni portanti, le strutture profonde che reggono le arcate della storia. Una di queste è il dono, chiave di volta delle relazioni antiche tra reggenti e corpo sociale. Il dono è l'itinerario tematico del lavoro di Veyne: seguendolo, secolo dopo secolo, dall'ellenismo al tramonto dell'impero romano, si comprende il ruolo insostituibile svolto nelle vicende umane da quest'atto in fondo semplice e grato, concreto e simbolico, un intreccio di materiale e di spirituale, di beni solidi e di volontà. Per studiarlo, non basta l'acume dello storico: si richiedono la passione e la pietà del filosofo, farina di cui il sacco di Veyne trabocca. I greci, gli iniziatori del dono, ne furono i maestri e i teorici. Aristotele, nel suo catalogo di tipi umani, include il «magnifico», il professionista del dono, che per le alte cariche è il candidato ideale. Gli dei ellenici sono stati i primi evergeti, i benefattori. Senza il fuoco regalato da Prometeo, gli uomini soggiacevano allo stato tribale del «crudo». Con il «cotto», non solo migliorarono dieta e tenore di vita, ma modellarono creta e metalli e, soprattutto, alimentarono il culto dei celesti con i sacrifici sulle are accese.

Così il dono rivela la sua natura di cemento delle istituzioni, canale di scambio che fluidifica il rapporti. Ingranaggio connaturato alla macchina del potere, l'elargizione è una prova del nove, istituzionale, delle buone intenzioni di chi è al comando. Se costui profonde del proprio, significa che nella missione ci crede. Quando Demostene rivendica i suoi meriti verso la collettività, non sparge incenso su una sua generosità individuale e spontanea: dichiara l'adesione al sistema, come a dire «ho fatto un pareggio matematico di bilancio». A Roma, l'apoteosi del dono ha la forma del monumento più bello del mondo: il Colosseo, regalato all'urbe dai Flavi come bomboniera dei passatempi più truci. Ma la pratica era antica. Cesare e Augusto elargirono a piene mani.

Non cerchiamo nelle pagine di Veyne il racconto cronachistico dell'orrore, l'adrenalina dei circenses, il sangue nell'arena.

Quelle sono emozioni da epigrammi violenti di Marziale e da fiction odierna, con le bestie impazzite e i brandelli di corpi che schizzano sugli spalti. La penna di Veyne è colta, non erudita. Il dato documentario è fornito per cenni, quanto basta. Sotto, pulsa l'idea.

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