L'attacco parte appena l'alba comincia a illuminare il cielo di Monaco di Baviera. Cinque settembre 1972, un settembre nero. Otto uomini in tuta con le borse sportive si dirigono veloci verso il numero 31 di Connollystrasse, il quartiere degli atleti che porta il nome di James B. Connolly, medaglia d'oro di salto triplo alle Olimpiadi del 1896, le prime dell'era moderna. All'entrata del Villaggio olimpico si sono mescolati a risate e pacche sulle spalle con un gruppetto di atleti americani mezzi ubriachi, la sorveglianza li ha degnati appena di uno sguardo. Loro invece sono lucidissimi e nonostante l'ora da sonnambuli hanno l'adrenalina a mille.
Perché non sono atleti. Sono terroristi. Sono arrivati a Monaco da città diverse secondo un piano studiato a Roma dai capi dell'estremismo palestinese. Obiettivo: i ventinove uomini della rappresentativa olimpica di Israele. Dentro le borse ci si sono bombe, mitragliatori, passamontagna. Bussano alla porta del primo appartamento: «Abita qui la squadra israeliana?». L'allenatore di lotta libera Moshe Wenberg, 32 anni, viene fulminato sul posto da una raffica di mitraglietta appena socchiude l'uscio, un altro lottatore Joseph Romano cerca di reagire con un coltello rimediato chissà dove. Ferito, verrà castrato e violentato prima di essere ucciso sotto gli occhi dei suoi compagni. Il pugile Gad Zavary grida: «Scappate, scappate via di qui» e si butta dalla finestra, diciotto riescono a fuggire insieme a lui, nove no.
Due ore dopo, alle sei del mattino, il capo della polizia di Monaco Manfred Schreiber circonda il quartiere con 600 uomini e decine di mezzi corazzati. Poi, da solo, raggiunge l'edificio di Connolystrasse. Il capo del commando, che tiene una granata in mano, vuole parlare con lui. Alle nove Settembre nero, così si chiama il gruppo terrorista, rende note le sue richieste: in cambio dei nove ostaggi pretende la liberazione di 256 detenuti nelle prigioni israeliane e di Andreas Baader e Ulrike Meinhoff, i capi delle Brigate rosse tedesche. Vogliono anche un Boeing 727 che a operazione finita li porti in un paese arabo amico. Hanno tempo tre ore, se non accetteranno lo scambio uccideranno due ostaggi ogni mezz'ora. Comincia il conto alla rovescia.
Nessuno sa cosa stia succedendo là dentro. C'è solo un uomo che si affaccia dalla palazzina, tra i pannelli bianchi e rossi: snello, indossa un passamontagna con le fessure aperte per gli occhi e la bocca, e un maglione dolcevita giallo, guarda giù per qualche attimo, in piedi sul balcone, lo chiameranno «lo spettro dagli occhi tagliati». È un uomo senza volto e senza nome, è il suo essere nessuno la sua identità.
Appostati come cecchini da una collina di fronte lo fotografano in due. Kurt Strumpf, un reporter tedesco che lavora per l'Associated Press, e Russ McPhedran che collabora con il Sydney Morning News. Scattano un'immagine, la stessa, che diventa come scrive il responsabile sportivo del New York Times Neil Amdur «un simbolo del tempo incorniciato dall'anima del mondo», una delle foto più famose di sempre. Semplice, assurda, terrificante.
Cercano di scoprire chi sia. Non è Issa, il capo, poi identificato come Luttif Afif, nato a Nazareth da padre cristiano e madre ebrea. Prima dell'attacco, aveva vissuto in Germania occidentale per quattordici anni ed era fidanzato con una ragazza tedesca. Di solito indossa occhiali da sole, un tailleur da safari e una fedora bianca, il viso tutto dipinto di nero. Non può essere lui. E non è nemmeno Tony, cioè Yusuf Nazzal, l'ex cuoco del villaggio olimpico che va in giro con un cappello da cowboy e una mitragliatrice a tracolla. Allora chi è? Nessuno è inquietante come lui, nemmeno i suoi capi. «Ma questa foto sarebbe diventata così famosa se avessimo visto in faccia il terrorista?» si chiede Jim Webster, corrispondente della Reuters. «Molto semplicemente, no. Quando «lo spettro dagli occhi tagliati di Monaco» si trasformò nel simbolo del terrorismo internazionale divenne evidente che i Giochi tedeschi del 1972 non avrebbero cancellato come volevano fare quelli di Hitler del 1936, ma ne sarebbero diventati l'eco».
La tragedia ha una trama implacabile. Il Parlamento israeliano riunito d'urgenza respinge le richieste dei terroristi, il ministro dell'Interno tedesco Genscher cerca di guadagnare tempo fingendo trattative che non ci sono con Gerusalemme. Alle 10 di sera gli otto feddayn portano gli ostaggi incatenati e bendati su un pullman dell'esercito, li aspettano due elicotteri che li devono portare in aeroporto. Cinquecento soldati circondano la pista ma solo cinque tiratori scelti vengono piazzati negli angoli strategici dello scalo con l'ordine di sparare ai terroristi appena si presenta l'occasione. Ma sbagliano momento. Due feddayn vengono colpiti, il capo del commando riesce a mettere fuori uso le cellule fotoelettriche della torre di controllo e la pista piomba nella semioscurità, illuminata solo dagli spari. La battaglia dura un'ora, cinque terroristi muoiono, tre vengono catturati, tutti gli ostaggi uccisi, quattro dalle bombe lanciate dentro gli elicotteri, gli altri dai colpi incrociati della battaglia. Un disastro strategico, militare e politico. E 21 ore di fila di copertura tv consegnano, trent'anni prima dell'11 settembre, il terrorismo all'audience globale.
Resta solo un mistero. Nessun film, nessun libro, nessun servizio giornalistico o documentario svela chi è «lo spettro dagli occhi tagliati». Tranne uno, quasi per caso. Il docufilm One Day in september. Le foto del massacro, degli ostaggi fatti a pezzi e dei terroristi uccisi sono così sconvolgenti che i produttori vengono incontro alle richieste delle famiglie che chiedono di sfocare le sequenze. Ma tra i cadaveri ce n'è uno particolare, che ha qualcosa di già visto. È steso a terra, ha una mitragliatrice vicino al corpo, i capelli lunghi, la faccia crivellata di colpi. E indossa un maglione dolcevita giallo. È lui. Dopo quasi mezzo secolo si scopre chi è lo spettro dagli occhi tagliati: si chiama Khalid Jawad, ma tutti lo chiamano Salah, ha solo 18 anni, il film lo racconta come «un ragazzo come tanti che amava il calcio e che viveva in Germania da due anni insieme al fratello Farud». Ma non è così. Khalid cresce nei campi profughi di Chatila, in Libano e va a vivere in Germania, questo è vero, ma viene rispedito in patria. Non sa adattarsi al nuovo paese, non fa amicizia con nessuno, vive in un mondo a parte. Forse per questo i due capi di Al Fatah, Abu Daoud e Abu Iyad, che insieme a Abu Mohammed di Settembre nero, studiano in un bar di piazza del Pantheon a Roma, il piano Monaco 72, lo scelgono. Perché non ha nessuno, perché non ha niente da perdere. Lo mandano in Siria ad addestrarsi. Dice al fratello che è là per giocare a calcio, che ha trovato un contratto con una squadra. Ma Farud nota sulla schiena di Khalid i segni profondi di uno zaino pesante, come quelli che hanno i guerriglieri. Stai tranquillo, gli risponde, in Siria gioco solo a pallone, ma tu comunque non dirlo a nessuno. Farud scoprirà solo dalle fotografie di un giornale, giorni dopo la strage, che uno dei macellai delle Olimpiadi è suo fratello. Un mese prima di Monaco Khalid è in Libia per un addestramento militare avanzato. Le prove generali del massacro.
Alla base aerea di Furstenfekdbruck, nella semioscurità in cui è piombata la pista, cerca di fuggire infilando la via sul retro degli elicotteri, correndo però senza saperlo incontro a uno dei cecchini nascosti dietro un giardinetto. Tre colpi in faccia lo fulminano sul posto.
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