Un’onda di memorie che parte da lontano quella di Guido: comincia da Sermino. Un picio montisel fora de Capodistra – la sua descrizione del paese dov’è nato nel giugno del 1932. Nella valle del Risano, che va da Albaro Vescovà a Decani, a Capodistria: Sermino da una parte, Ancarano dall’altra. I miei antenati vi abitavano già nel 1640: l’ho scoperto di recente, nel primo registro della chiesa di Lazzaretto. Nella località, quando funzionava la famosa Parenzana, c’era la fermata Nobile – continua - così soprannominata per il nome del proprietario di quelle terre... Per farmi vedere il treno che passava, quand’ero piccolo mia madre mi metteva su di uno sgabello vicino alla finestra.
Nella sua antologia di ricordi, spazio anche per il periodo della scuola: dapprima a Prade, dietro Bertocchi - con il maestro Conelli – poi l’avviamento professionale di Capodistria, che sarebbe stato seguito da tre anni di serali a Muggia e da un corso di tornitore a Trieste. Apparteneva ad una famiglia di tradizioni contadine, ma l’aspirazione di Guido era quella di lavorare alla Fabbrica Macchine. Il nonno era mezzadro dai Gravisi. C’erano 35 ettari di terra da coltivare, i vigneti da curare, il vino da produrre. A casa nostra i linzioi (le lenzuola) no iera mai caldi – la sua battuta per sottolineare come tutti dessero il proprio contributo lavorativo, fin da piccoli.
Del periodo bellico, indimenticabili per lui i contorni dell’8 settembre 1943: di ritorno col papà dal pellegrinaggio alla chiesa della Madonna di Strugnano, furono colpiti dall’insolito movimento di navi in uscita dal porto di Trieste. Appreso dell’armistizio, quella sera suo padre stappò una bottiglia di vino: beviamo alla fine della guerra – disse - ma per noi è appena cominciata. Purtroppo il genitore aveva visto giusto e la tragedia subito sfiorò la famiglia Braini. Nel caos venutosi a creare in quei primi giorni di sbandamento delle truppe italiane, i 200 soldati di stanza a Sermino avevano cercato di mettersi in salvo dall’arrivo dei tedeschi, scappando in abiti borghesi. Abbandonate dai militari, le due caserme del posto erano rimaste in balia dei saccheggi. La gente portava via tutto quello che trovava: gabinetti, pietre, tegole - prosegue il racconto. E anche munizioni, talvolta dimenticate nelle tasche delle divise dismesse. In quel quadro di totale confusione, ci muovevamo noi ragazzini. Il papà da subito mi aveva allertato sulla pericolosità di certe scatolette rosse in cui avremmo potuto imbatterci: erano bombe e non si dovevano assolutamente toccare. Un avvertimento, che Guido ripetè spaventato ad Argia Apollonio - sorellina di 5 anni di un suo amico, che spesso si aggregava al gruppo di amichetti del fratello - mentre incuriosita, quell’11 settembre 1943, gli stava mostrando la scatoletta rossa che aveva trovato. Ma non bastò. La deflagrazione la colpì in pieno. Il suo corpo fece da scudo a lui ed al cugino che, seppur feriti, si salvarono. Mi ritrovai coperto di sangue e con un forte dolore al pollice: mi si erano conficcate sotto all’unghia oltre 80 schegge – la descrizione di quei drammatici momenti. Ricordo ancora il loro suono metallico, mentre il medico dell’ospedale di Ancarano – tolte una ad una - le lasciava cadere in una bacinella rivestita di smalto bianco. Ho continuato ad andare a trovare Argia al cimitero, ad ogni mio ritorno dal Canada. Purtroppo l’ultima volta sulla sua lapide c’era un altro nome. Confesso di aver pianto. Mentre il giovane Braini si stava affacciando all’adolescenza, la guerra, come previsto da suo padre, era arrivata davanti a casa: sparatorie, scontri fra partigiani e tedeschi, le foibe. Non parlavano degli orrori davanti ai bambini, ma i fioi riva sempre a sentir tuto – le parole di Guido, continuando a ricordare gli eventi. L’escalation arrivò la notte del 2 ottobre 43: sembrava che l’Istria fosse tutta un fuoco – da Bertocchi a Pobeghi. Hitler aveva preso paura, perchè l’Istria era disarmata e sarebbe potuta essere facile punto di sbarco per gli inglesi. L’esercito tedesco arrivò con i migliori armamenti, i panzer ed i nuovi tipi di cannone, i tigre. Quanto mi impressionavano i sibili delle loro gittate! In due giorni fecero tremila morti. Passò il 44, con i suoi drammi e con l’alternanza di scorribande nelle case – già più volte riferita - da parte di opposte fazioni alla ricerca di cibo: nazifascisti di giorno, partigiani di notte. Arrivato il 45, molti italiani, pur se attivi nella lotta di liberazione, si trovarono a rischio di eliminazione da parte degli esponenti della nuova ideologia. Prossima la fine della guerra, nella valle del Risano con un paio di coetanei, Guido fu testimone della ritirata dell’ultima colonna di tedeschi, che sarebbe poi stata decimata nei pressi di Albaro Vescovà, nello scontro della notte seguente. Nello stesso punto, il giorno dopo i ragazzi incrociarono i primi avamposti del IX Corpus di Tito, diretti ad occupare Trieste.
Nel dopoguerra divenne difficile essere italiani a Capodistria. Una dimostrazione per tutte fu l’uccisione di Pescefritto, titolare dell’omonima trattoria, uscito dal suo locale con la bandiera italiana. Si comprese che l’italianità doveva rimanere in casa e non essere dimostrata – procede il racconto. In molti cominciarono a partire. I tempi divennero ancora più difficili a ridosso del Memorandum di Londra: chiusa la frontiera, i prodotti agricoli dovevano essere portati solo alla cooperativa di Bertocchi. Guido, interessato a verificare in loco le modifiche confinarie in atto, involontariamente oltrepassò la linea di demarcazione: arrestato dai graniciari jugoslavi di pattuglia lungo la frontiera, venne messo per 15 giorni nel carcere di S. Anna a Capodistria. Un’esperienza che mi ha lasciato il segno – spiega: chiuso in cella, ogni giorno un giro in cortile per l’aria e due pasti. Per il resto lessi moltissimo. Per fortuna avevo trovato molti libri di Jack London, il mio autore preferito. Entrato in vigore il Memorandum d’Intesa, i Braini compresero che le loro speranze erano finite: era l’autunno del 54, quando lasciarono Sermino per Trieste. Registrati al campo profughi di San Giovanni, dopo la provvisoria sistemazione in un alloggio di fortuna, vennero assunti come custodi in una villa di Banne, in cui c’era da risistemare l’area verde. La cosa più semplice del mondo chiedere a mio papà e mio nonno di fare i contadini: sapevano fare solo quello – il commento di Guido. In poco tempo riuscirono a trasformare quella landa di sterpi e boscaglia: in un giardino, in un orto con tutte le varietà di verdura, in un vigneto che in pochi anni produsse fino a 20 ettolitri di vino. Si organizzarono anche con stalla e mucche, che davano tanto latte. Una produzione tale, che mamma Braini - memore del sua gioventù, quando per farsi il corredo portava il latte a Trieste – a 50 anni riprese per un po’ la sua attività di un tempo. La sua licenza era datata 1926. Scendeva di prima mattina, con il tram di Opicina: lo chiamavano il tram del latte, per le tante donne, che come lei a quell’ora portavano il prodotto in città. Guido, dopo un passaggio occupazionale nell’edilizia, cominciò a lavorare nella fabbrica di tappi di sughero Colombin. Riuscì a ritrovare la ragazza, a cui non aveva più smesso di pensare da che l’aveva conosciuta, ancora in Istria: Bruna Coslan. Nata nel 34 in una frazione di Capodistria – Bertocchi - fino all’esodo vi aveva vissuto con la sua famiglia: genitori, 3 sorelle, un fratello. Fra i suoi progetti infantili, quello di diventare infermiera. Ma era difficile a quei tempi poter andare avanti con gli studi – sottolinea. Il passaggio attraverso gli anni di guerra aveva lasciato più segni nella sua memoria di bambina: l’irruzione notturna dei partigiani che portarono via il papà per qualche giorno, gli agguati, le rappresaglie, i morti. E poi il maggio del 45 - mentre andava a cercare un medico per la sua mamma, che aveva partorito da poco - ed il ricordo di tre giovanissimi militari tedeschi, incrociati per via: con braccia alzate ed un fazzoletto bianco in mano, cercavano qualcuno che non infierisse sulla loro resa.
Dopo il matrimonio con Guido e la nascita del primogenito, Bruna assecondò il progetto del marito di tentare per qualche anno l’avventura canadese: fissò un traguardo di cinque anni per raggranellare un po’ di soldini e tornare a Trieste. Guido aveva presentato la domanda di emigrazione in gran segreto dal padre e dal nonno, di cui ricorda ancora oggi la reazione, nell’apprendere la notizia. Ma cosa stanno facendo i tuoi genitori? Mai la famiglia Braini ha fatto qualcosa del genere. Non si va in giro per il mondo. Come mai non sono stato capace di insegnare queste cose!? - le domande che disperato rivolgeva al nipotino, che aveva preso in braccio. Meglio far la fame a casa propria che in un altro paese – gli aveva fatto eco lo zio Giovanni. Guido e Bruna con il piccolo Roberto partirono il lunedì di Pasqua, nell’aprile del 1960. L’ultimo pasto lo condivisero con amici e parenti venuti a salutarli, nella stanza da letto della villa di Banne. Dalla finestra lo sguardo poteva spaziare sul golfo di Trieste, e ancora molto più in là. Quel giorno notarono soprattutto la motonave Vulcania, che li stava aspettando. Salparono dopo la Messa celebrata per l’occasione dal vescovo Santin. Arrivarono ad Halifax il primo maggio: era domenica e la città era coperta di neve. Abbiamo avuto il primo incontro con le autorità canadesi: persone flemmatiche, che dopo averci registrato, ci rilasciarono un biglietto verde su cui erano scritti il nome, la provenienza, la nave, e le tre fatidiche parole: Land of emigrant. Quel biglietto verde ci dava il diritto di diventare cittadini canadesi dopo cinque anni. E’ positivo il pensiero di Guido nel rivivere quei momenti. Giunti ad Hamilton, dov’erano stati destinati, la famigliola venne accolta da un prete trevigiano. Fu sorpresa reciproca il sentir parlare con cadenza veneta. C’era una contingenza economica in atto ed il religioso consigliò di seguire le direttive dell’Ufficio Immigrazione, in grado comunque di garantire un pezzo di pane ed un letto. In città c’erano 75.000 disoccupati. Tornemo a Trieste Bruna, che i ga solo 25.000 – la reazione di Guido, fra il serio ed il faceto. Ebbero adeguato supporto: sistemati per 15 giorni in albergo a pensione completa, seguì il trasferimento a London, dove c’erano le grandi piantagione di tabacco. Si trovarono a vivere la sgradevole esperienza della selezione da parte dei farmisti: fummo visionati e scelti, come in una mostra di bestiame – spiega Bruna. Io venni scelta in quanto bionda, cosa che fece presumere al fattore ungherese che ci ingaggiò, che io parlassi il tedesco. Ci arrangiammo con un mix di inglese ed un po’ di sloveno. Si rivelò comunque amabile persona, come del resto fu molto di supporto per noi, la famiglia di serbi della casa vicina. Mi prestarono anche una radio, che riusciva a ricevere una stazione italiana: quando l’accesi stavano trasmettendo la canzone L’emigrante. Non riuscii a trattenere l’emozione, anche perchè dopo tanto potevo risentire la mia lingua. Il lavoro nei campi di tabacco era pesante. Anche per chi era abituato a fare il contadino – spiega Guido. Figurarsi per sua moglie, non pratica di campagna e dalla pelle chiara: si trovò a piantare e zappare sotto il sole cocente. La conseguente scottatura le provocò addirittura la febbre.
Un po’ alla volta riuscirono a riprendere i contatti con i compaesani da cui erano rimasti isolati: decisero di raggiungere quelli di Toronto. Bruna ebbe un colpo di fortuna e trovò subito un buon impiego in una fabbrica di prodotti alimentari, dove ha lavorato per 38 anni, fino al pensionamento. E’ stata lei il bastone della famiglia – riconosce amorevolmente Guido, che cominciò la sua carriera lavorativa a Toronto in qualità di giardiniere nelle serre di un grande vivaio. Il principale non riusciva a pronunciare il suo nome, che trasformò in John. Quell’occupazione gli piaceva, ma fatalità volle che scendendo dall’autobus mentre si recava al lavoro, un incidente gli provocasse il distacco di un dito della mano. Dopo due mesi di forzata inattività, ricominciò a lavorare: dapprima nel campo meccanico, passando poi all’elettromeccanica ed infine all’elettronica.
La prima casa riuscirono ad acquistarla nel 63: oltre che significativa tappa nel percorso canadese, fu sinonimo di indipendenza dai condizionamenti della padrona di casa, dove fino ad allora avevano abitato in subaffitto: non voleva troppe visite di amici e controllava i consumi domestici di acqua e gas.
46 anni di Canada, 3 figli, molti i rientri a Trieste, che Braini ha cercato di rendere sempre più frequenti ed abbinati ad una visita alla terra delle proprie radici. Il primo è avvenuto nel 1969: al tempo dello sbarco dell’uomo sulla luna – precisa Guido, che puntualizza anche di sentirsi italiano, di cultura istro veneta. Ma tanta ammirazione la riservo anche al Canada, per com’è amministrato, per come tratta gli emigranti e si interessa della sua gente. I problemi ci sono, ma esistono ovunque. Toronto è diventata una grande città e si trova a sopportarne le conseguenze: delinquenza, droga, malavita. Il rapporto è di 4 milioni e mezzo di abitanti contro 70/80 omicidi l’anno.
Spaventa, però se facciamo il confronto con metropoli sue pari, troviamo Detroit che ne conta 1.200 e Washington 1.600.Qui siamo in buone mani: il capo della Protezione Civile dell’Ontario è un friulano, nato a Codroipo: Giuliano Fantino. ....... ed anche il capo delle Giubbe Rosse è italiano.
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