A volte fa bene. Fa bene che qualcuno ci ricordi che le immagini non hanno un valore neutro, che tutto quello che ci circonda può essere filtrato attraverso una luce che talvolta può essere anche crudele e restiturici un realtà che fa male, che non si capisce, non piace. Fa bene perchè aiuta a sentirsi parte di un contesto di cui non siamo attori passivi ma protagonisti, interpreti e autori. E come tali responsabili.
Così ci si sente dopo aver parlato con Francesco Zizola, uno dei maggiori fotoreporter italiani. Lo abbiamo incontrato giovedì in occasione della conferenza “Fotoreporter. Filtrare la luce”: organizzato da New Old Camera nella stupenda cornice di Palazzo dei Giureconsulti a due passi dal Duomo di Milano, l'incontro, moderato da Luca Rocco, ha permesso di conoscere un po' di quella “etica delle immagini” che muove il fotogiornalista, il primo italiano vincitore dell'ambitissimo premio World Press Photo.
Nel 1996 Lei ha vinto il World Press Photo con uno scatto sulla tragedia delle mine antiuomo in Angola (guarda la foto) e ha raccontato con il suo obiettivo moltissimi conflitti in tutto il mondo. Cosa vuol dire per lei essere fotorepoter?
Per capire cosa è per me il mestiere di fotogiornalista- non mi piace la definizione reporter di guerra, che mi ricorda quella di “cecchini delle immagini”- forse può essere utile spiegare cosa mi mi ha avvicinato alla fotografia e quindi al fotogiornalismo. Ero un bambino. La maestra a scuola ci aveva parlato della Seconda Guerra Mondiale e in particolare del genocidio degli ebrei. Io non avevo proprio capito di cosa si trattasse, per questo quando sono tornato a casa ho chiesto a mio padre di spiegarmi di cosa si trattasse. Lui mi mostrò una fotografia che raffigurava una catasta di cadaveri in un campo di concentramento. Quello che non avevo capito dalla spiegazione della maestra, lo capii all'istante attraverso una singola foto che rendeva perfettamente l'orrore che nessuna parola poteva illustrare.
Per questo poi ha sentito l'esigenza di contribuire anche Lei a spiegare con le immagini il mondo, anche e soprattutto quello che nessuno racconta?
Diciamo che man mano imparavo “il mestiere delle immagini”, ho avvertito anche la necessità stringente di usare questo incredibile strumento in modo diverso da come veniva usato dai media, per me superficiale e non certo atto a rendere la complessità del reale. Da lì la mia inchiesta sull'infanzia in diversi continenti da cui è nato il libro “Born somewhere”. Il fotogiornalista, a differenza del fotografo, ha dei limiti che il primo non ha: deve fare delle scelte prima, durante e dopo lo scatto. Sono scelte che devono rispettare quel “contratto con i lettori” che impone al fotogiornalista di essere totalmente onesto nei suoi scatti. Chiaramente poi, oltre all'etica del fotoreporter, c'è anche quella del lettore che deve prendersi la responsabilità di capire, di analizzare quanto gli viene rappresentato.
Rispetto a questo, come valuta la condizione del fotogiornalismo oggi in Italia?
Il fotogiornalismo, esattamente come i media in generale, sta soffrendo molto in questo momento. C'è una crisi diffusa dovuta anche certamente ai cambiamenti degli strumenti dati, internet in primis che ci rende tutti produttori e divulgatori di informazione. Questa orizzontalizzazione dell'informazione sicuramente rende il mestiere del fotogiornalista più complesso ma se vogliamo gli impone anche delle sfide importanti: lo spinge cioè a cercare nuovi strumenti per comunicare e rafforzare il messaggio che vuole trasmettere. Se lei pensa che l'Italia è storicamente il Paese in cui è nata la prospettiva e non esiste una scuola dell'obbligo per il linguaggio visivo, si rende conto della condizione in cui si trova l'educazione alle immagini. E' chiaro che senza questa educazione alle immagini, che sono ovunque, ci circondano raccontando dalla realtà più drammatica a quella più banale, siamo totalmente ignoranti e alla mercè degli altri che possono farci credere qualsiasi cosa. Per questo oggi è assolutamente necessaria una nuova educazione visiva.
E' questo lo scopo che si prefigge Noor, l'agenzia da Lei fondata con altri 10 soci?
Noor Images è un'agenzia di fotogiornalismo ma di fatto è una cooperativa senonché anche una fondazione. E' stato proprio prendendo atto della crisi inarrestibile dei media che abbiamo voluto cercare altre forme di finanziamento e produzione per raccontare il mondo. Se prima il ruolo dei media era fondante sia per l'aspetto della produzione che per quella della distribuzione, con Noor abbiamo voluto renderci autonomi almeno per quella produttiva. Chiaramente per l'aspetto distributivo è impossibile trascendere dai media, il cui ruolo però viene decisamente rivisto. La scomessa di Noor è di portare avanti il ruolo civile, etico del fotogiornalismo in una realtà sempre più complessa da capire e da raccontare proprio attraverso la ricerca di nuovi strumenti di comunicazione visiva.
In questa situazione di crisi dell'educazione visiva, cosa consiglierebbe ad un giovane che volesse fare il mestiere del fotoreporter?
Di sperimentare, osare. Creare forme e stumenti nuovi di comuncazione del messaggio che vuole comunicare.
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