Mio cugino ha aperto un profilo Facebook.
Che c'è di strano? si potrà dire. Niente. Non fosse che ha 10 anni. Tanti quanti Facebook, che li compie il 4 febbraio.
Lo scorso fine settimana ero a pranzo dai miei zii. Finito di mangiare lo accompagno a giocare in salotto e mi fa: «Ti ho cercato su Facebook, ma non ti trovo». E io: «Ci sono con un nome finto perché... ma non sei troppo piccolo per Facebook?!?» Risposta: «Ho detto di avere 3 anni in più».
Indagando ho scoperto che secondo il Wall Street Journal nel 2012 oltre 5,6 milioni di bambini al di sotto dei 13 anni usavano Facebook, di cui 5 con meno di 10.
Ora. Non vorrei fare il moralista luddista tecnofobico. Ma insomma. Pensare al mio cuginetto che si scambia i selfie con le sue compagne di quarta elementare mi sembra una prospettiva folle.
Eppure, a pensarci bene, le sue foto, gaiamente troneggiante in braccio a mia zia, gagliardo e spericolato sullo scivolo sotto gli occhi orgogliosi di mio zio, sono presenti su Facebook da prima che io decidessi di aprire il mio finto profilo.
Ricordo benissimo quel giorno. Era il giugno 2007 e mi trovavo ad Ancona per lavoro. In edicola fui catturato dalla copertina di GQ con Asia Argento, che confessava di cercare i suoi amanti su internet e si dichiarava insoddisfatta perché nessun uomo, a suo dire, alla fine riusciva a fare l'amore con lei. Preso dall'impeto machista di dimostrarle che potevano esistere eccezioni alla regola, tornato a Torino, dove vivevo, mi iscrissi a Facebook (la contattai diverse volte e non mi rispose mai, ma questa è un'altra storia).
Fatto sta, che da allora non me ne sono più staccato.
In Italia, il vero boom ci fu l'anno dopo, nel 2008, con un incremento del numero di utenti del 135%.
Adesso, Facebook conta nel mondo 1 miliardo e 100 milioni di profili che producono 1 milione di link condivisi e 1 milione e 800 mila «aggiornamenti di stato» ogni venti minuti.
Un rumore di fondo di informazioni e interazioni che ci accompagna da quando ci svegliamo a quando ci corichiamo.
Pensare o fare qualcosa e subito condividerla su Facebook è così naturale da non sembrarci neanche più artificiale.
Eppure, se anche la mia e le generazioni precedenti si sono assoggettate in fretta all'uso di Facebook, con qualche sforzo mnemonico riusciamo a ricordarci di com'era prima del 2004.
Il paragone più calzante, che possa descrivere com'è cambiato il modo di intendere la socialità, è quello con la sfera della sessualità elettronica. Non a caso, Facebook nasce, nelle intenzioni di Mark Zuckerberg, come strumento per conoscere ragazze (o ragazzi) del campus di Harvard. Le nuove generazioni conoscono il sesso su internet, negli sconfinati siti che enciclopedizzano gusti e preferenze dalla A alla Z. Non che la pornografia non ci fosse anche prima, o che sia da considerarsi dannosa. Ma insomma. L'offerta, che fa violenza sulla domanda, veicola un mondo di perversioni e di bisogni possibili che fa pensare: cosa si potrà ancora fare nella realtà che sfidi le vertigini della fantasia? E soprattutto: fino a che punto questa fantasia potrà spingersi? Quando non ci basterà più?
Certo, tutti noi, non possiamo dirci innocenti. Ma possiamo sempre dire «Ai miei tempi» e ricordarci com'era quando il desiderio era incarnato dalla compagna di banco, dalla foto di un giornale sconcio, da uno sprazzo di nudità televisiva in tardissima serata.
Ma la generazione YouPorn, che è come dire generazione Facebook, ha un'altra idea della socialità come ha un'altra idea della sessualità: incentrata sulle piattaforme on line.
Che hanno molti vantaggi, come sappiamo.
E anche i fenomeni negativi, come il bullismo, sono bilanciati dalla moltiplicazione di occasioni per trovare persone affini con cui interagire.
Inutile, ad ogni modo, pensarsi contro o a favore.
Facebook è un fatto.
Lo spauracchio del totalitarismo sotto forma del Grande Fratello che ci controlla è stato aggirato dall'escamotage democratico che ha fatto si che il Grande Fratello diventassimo noi.
La vita di mio cugino è già tutta lì. E ci resterà finché vivrà. E anche dopo, probabilmente, dato che i 30 milioni di profili che appartengono attualmente a gente morta sono destinati ad aumentare e ad essere continuamente aggiornati, per tener vivo il ricordo.
Un inno all'esibizionismo, spesso macabro, non di rado volgare, fatto di pensieri veloci e di emotività senza veli.
Dalla costante condivisione e ricondivisione della nostra vita sui social network emerge un'autoreferenzialità che rischia di diventare la definizione aggiornata del concetto di «alienazione». Se è vero che l'alienazione c'era anche prima, oggi l'esibizionismo che affolla le bacheche e i profili, diventati i nuovi diari segreti da dimenticare aperti sui banchi di scuola per il pubblico ludibrio, ci condanna a biografie immortali.
Trasformando i «nativi digitali» in potenziali androidi, destinati probabilmente a sognare pecore elettriche.
Scenari apocalittici, forse, ma con una falla.
I
blackout.Penso a quei momenti allarmanti ed emozionanti in cui anche una metropoli sconfinata come New York resta improvvisamente al buio.
Finché esisteranno i blackout, potremo dormire sonni tranquilli.
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