Nella Grecia antica, la rissosità era endemica. I primi a dare il malo esempio erano stati gli dei: faide brutali, che spaccavano l'Olimpo. La scintilla della letteratura europea - l'incipit dell'Iliade - sgorga da un comando di larghe intese, Agamennone e Achille, che va in frantumi per puntigli d'onore e primato relativi a una schiava strattonata tra i due, in barba all'interesse comune contro Troia nemica. Metà della poesia lirica greca è fatta di dichiarazioni d'amore. Ma l'altra metà si nutre dell'odio di parte. Alceo di Lesbo, alzando il calice, tuona: «Ragazzi, beviamo a garganella: quel tiranno di Mirtilo è crepato!». Si riferisce a un concittadino, il capoccia di una consorteria rivale, e il verso appartiene agli stasiotikà, canti di opposizione e di rivolta.
Oggi diremmo «di guerra civile», perché in quei secoli magmatici di formazione delle strutture politiche, dalla democrazia all'oligarchia, dalla tirannide alle varie costituzioni «miste», il conflitto armato era lo stato normale, in cui si nasceva, si viveva e si moriva. Il paradosso è che non è facile trovare, nel greco antico, l'equivalente lessicale della nostra espressione «guerra civile». Nel caso più clamoroso e documentato, la guerra civile in Atene tra il 404 e il 403 a.C., gli storici antichi non trovarono di meglio che definirla «anarchia», un «non governo». Da questa formula, definita «quasi surreale», parte Luciano Canfora per scavare nei fatti di quell'anno inesistente (La guerra civile ateniese, Rizzoli, pagg. 396, euro 19) con la quadratura dello storico e il bisturi del linguista.
Non sono pagine divulgative. Hanno la sostanza della ricerca profonda. Canfora sottopone le fonti al crivello critico, e stana piste carsiche che spesso riaffiorano dopo secoli, riadattate alle circostanze presenti. È il caso dei famigerati Trenta, l'icona tradizionalmente più negativa di quell'annus horribilis di Atene. La città era in ginocchio. Dopo quasi trent'anni di conflitto con Sparta (Guerra del Peloponneso, 431-404 a.C.), sconfitta e umiliata, Atene soggiaceva: i suoi fiori all'occhiello, la flotta e le lunghe mura, cedute al nemico o distrutte. In più, il cambio di regime politico, orchestrato dal plenipotenziario spartano Lisandro, capo delle forze d'occupazione. Giù la democrazia, su i Trenta: già, ma perché da magistratura d'emergenza (il loro titolo da governo tecnico è «arconti») diventano i truci e leggendari «Tiranni» per antonomasia? Il leader del gruppo è Crizia, un ultraoligarchico, fanatico del modello statalista spartano, uno che vede la democrazia, il popolo al potere, come il cancro del mondo. È un ateo aristocratico («la religione è un'invenzione dei potenti per tenere sotto la gente»), un intellettuale utopista che incanta uditori del calibro di Platone, suo lontano nipote.
Come prima mossa, elimina i «sicofanti», delatori di mestiere che facevano soldi trascinando i ricchi in tribunale: una piaga democratica. Onore a un governo che fa pulizia morale. Ma poi i Trenta dichiarano guerra ai possidenti. Ne massacrano centinaia, fiscalizzandone i beni. Per sete di denaro? Escluso: sono già miliardari. È un disegno politico: rimodellare Atene su Sparta, i cui ceti dirigenti praticano un comunismo estremo, il valore che conta è la virtù, non il capitale. Contro Crizia si erge Trasìbulo, paladino di una democrazia alla riscossa. È la guerra civile. I Trenta crollano sotto l'attacco armato. Trasìbulo è santificato, è un eroe. Crizia e compari diventano i «tiranni» della tradizione romana, alimentata da Cornelio, Cicerone, Seneca. Che per il sistema democratico, però, hanno scarsa simpatia. Riciclano Trasibulo come «patriota»: in tempi agitati, la patria può essere un vessillo di comodo.
La conclusione di Canfora è che Atene rinunciò a metabolizzare quei mesi di crisi sanguinosa.
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