Il mondo dell'arte è ancora troppo elitario e difficilmente cambierà un'abitudine consolidata da secoli. Certo, a chiunque «faccia mostre» interessa un ipotetico allargamento del pubblico: bisogna però distinguere le inaugurazioni affollate di affezionati dello struscio e del cocktail (oggi è difficile offrano da bere a mille persone in una sera) da quei pochi, sempre loro, disposti a mettere mano al portafoglio.
Galleristi, mercanti, artisti non inseguono le masse ma un piccolo gruppo di collezionisti scelti che si muovono non certo perché hanno visto una foto su Instagram, anche se a postarla è stato quel Gerry Bonetti, avvocato milanese di successo (85mila follower) che compra arte nuova dal taglio minimalista. Niente selfie per lui, a differenza di Edoardo Monti (37mila) per cui un'opera esiste in funzione della sua stessa immagine. Francamente insopportabili quelli che si fotografano davanti a un Anish Kapoor credendosi dei superfighi.
È vero che ormai si comprano auto e moto su internet ma l'arte fa storia a sé. Un'opera la vuoi vedere, rivedere, ti devi fidare del venditore e che sia effettivamente valida. Alcuni anni fa venne tentato l'esperimento di una fiera virtuale coinvolgendo alcune gallerie molto importanti. Risultato, un flop. Di accessi e di vendite. Facile da spiegare: aldilà della piacevolezza del rapporto personale, il web dà popolarità ma non autorevolezza. Lo dimostra il fatto che nessun critico d'arte o curatore è nato sul web, in un mondo dove per fortuna fanno ancora testo i saggi pubblicati su libri, cataloghi, riviste, giornali. Il caso Banksy dimostra l'evidente scollamento tra celebrità e importanza. Il misterioso artista di Bristol lo conoscono tutti, i media vanno in sollucchero per qualsiasi menata tiri fuori, eppure nelle collezioni e nei musei importanti Banksy non ci sarà mai perché se sei popolare e snob o ti chiami Andy Warhol o è meglio che lasci perdere.
Proprio per combattere il consolidato elitarismo si sta diffondendo la nuova figura dell'art influencer il cui scopo però non è al momento così chiaro. Accetto volentieri il consiglio di visitare una mostra da una storia su Instagram o da un post su Facebook, ma queste cose le so già, visto che i solerti uffici stampa mi informano di ciò che accade e che mi pregano di recensire la mostra qui, su il Giornale e se dico «al limite scrivo qualcosa in rete» storcono il naso.
Un art influencer che si porta in dote migliaia di follower potrà essere interessante per una forma di pubblicità indiretta, la camicia, le scarpe, gli occhiali, il libro che sta leggendo, il ristorante o il bar che gli funziona da sfondo, ma finché non troverò sul web qualcuno in grado di inventare l'Arte Povera o la Transavanguardia e di ottenerne risultati sul mercato continuerò a pensare che questo strumento non sia adatto per l'arte, neppure al semplice livello comunicativo.
Eppure sulla fenomenologia dell'art influencer - in tanti vorrebbero essere più Chiara Ferragni che Glenn Lowry, soprattutto quelli che non hanno idea di quanto potere abbia il direttore del MoMA di New York - si discute come di un'assoluta novità. Ciò che va di moda tocca conoscerlo e allora prendiamo anche noi confidenza con queste nuove figure professionali, a cominciare da Maria Vittoria Baravelli (21mila follower su Instagram) che ama definirsi Art Sharer e condividere con altri la sua passione. Porta spesso gli occhiali scuri, veste come una modella, mastica la erre e dice cose molto semplici raccontandoci che un giorno è a Venezia un altro a Milano un altro ancora a Londra. The Girl in the Gallery (16mila follower) è lo pseudonimo di Cristina Glopp, anche lei proiettata ad avvicinare il nuovo pubblico di giovani a un mondo per molti troppo difficile. È una storica dell'arte, avrà studiato, allora potrebbe capire che l'arte come tutti i linguaggi specialistici ha bisogno di approfondimento, non del parere «mi piace, non mi piace» di chicchessia. Vabbè che ormai sui social ti spiegano anche il codice civile o la cardiochirurgia.
C'è poi chi sostiene che l'arte come te la rivela lui, nessuno mai ancora. Sul sito di Andrea Concas scopri segreti che neanche un Vasari 3.0 e basta leggere il suo profilo per imbatterci in esperienze di cui ignoravo l'esistenza: fondatore di startup quali Art Backers e Art Rights, piattaforma per la gestione e certificazione delle opere con tecnologia Blockchain, intelligenza artificiale e di ArtCollateral, primo escrow agent per l'Art Lending. Tradotto in parole povere, Concas spiega che esistono tante nuove professioni, come vendere quadri on line, invita personalità a chiacchierare, parente più della tv all'Alberto Angela che dei giovani influencer.
Già, ma dove sta il business in tutto questo? Probabilmente nei banner che si aprono a raffica, promettendo di insegnare (a pagamento) al giovane artista (anzi, candidato all'artisticità come avrebbe scritto Roberto Longhi) a preparare un cv, un book, a chi rivolgersi, a diventare famoso. Tutto ciò a cui aspirare alla fine è sempre e solo la celebrità.
Nel dubbio, riprendo in mano gli strumenti tradizionali del sapere, i saggi e i cataloghi, consolandomi con la diatriba tra Clement Greenberg e
Harold Rosenberg a proposito dell'Espressionismo Astratto americano immaginando, per vendetta, di interrogare uno a uno questi simpatici art influencer chiedendo loro date e luoghi di nascita di Rothko, Pollock & co.
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