L'«Elogio di Anders Breivik», il terrorista norvegese, ha un titolo fuori luogo ma contenuti in parte condivisibili

Altro che elogio di Anders Breivik, lo stragista norvegese, qui bisogna fare l'elogio di Aldo Canovari, l'editore maceratese che mette in pratica la famosa frase attribuita a Voltaire (in realtà apocrifa eppure affascinante): «Non sono d'accordo con le tue idee ma difenderò sempre il tuo diritto di esprimerle». Con la sua Liberilibri, manifestando un certo sprezzo del pericolo, Canovari manda in libreria un breve pamphlet di uno degli scrittori più proibiti di Francia, Richard Millet.
Il testo si divide in due parti, una più corposa intitolata Lingua fantasma, dove si analizza la decadenza della letteratura francese e occidentale tutta, e una di poche pagine intitolata Elogio letterario di Anders Breivik, e qui sono i dolori, chiaro. Ma grazie al coraggio di un piccolo editore adesso possiamo finalmente capire fino in fondo il caso Millet che nel 2012 ha scosso il mondo intellettuale francese. Su Le Monde, che è la loro Repubblica, un'ignorantona arrivò a scrivere di «pamphlet fascista che disonora la letteratura», raccogliendo a sostegno di simile affermazione le firme di 100 scrittori 100 fra i quali Tahar Ben Jelloun, Jean-Marie Le Clézio e Amélie Nothomb (tu quoque, Amélie? Sembravi una donna stralunata e libera, invece eccoti inquadrata nella truppa dei censori). Un pamphlet fascista che disonora la letteratura? Come se gli scaffali del Novecento non fossero pieni di scrittori fascisti e pure nazisti che la letteratura l'hanno onorata eccome. E, soprattutto, come se il libro di Millet fascista lo fosse davvero. Non lo è. Io l'ho letto e posso garantirlo a chi non avesse voglia di leggerlo: non lo è.
È il pensiero di un letterato della Francia profonda, nato nel 1953 in un villaggio di cento abitanti fra i boschi e i laghi del Limosino, la regione degli arazzi e delle ceramiche, dei migliori bovini da carne e delle querce con cui si fanno le botti dei vini pregiati. Quindi un signore un tantino conservatore, certo, un poco elitario, ovvio, e parecchio nemico dell'immigrazione, come del resto lo furono Aristotele (nella Politica) e Dante Alighieri (nel sedicesimo canto dell'Inferno), due tizi nati e cresciuti qualche anno prima di Benito Mussolini anche se l'ignorantona di Le Monde, e Tahar Ben Jelloun, e Jean-Marie Le Clézio, e Amélie Nothomb, evidentemente non lo sanno. Però il filosofo greco e il poeta italiano videro nell'immigrazione un problema politico, mentre il polemista francese ne fa una questione letteraria, e questa mi sembra una novità. «Tempo fa nazione letteraria per eccellenza, la Francia è diventata il Paese dove con più forza si manifesta la pauperizzazione della letteratura». Secondo Millet i colpevoli sono almeno in parte gli immigrati extra-europei che rifiutano la cultura europea. «La letteratura riposava su un sentimento della lingua», sullo stile, sullo studio, sull'amore per i classici che oggi non interessano né agli immigrati né agli indigeni che hanno rinunciato a loro stessi «in favore della divinizzazione politico-mediatica dell'Altro, dello straniero».
Si può non essere d'accordo ma si potrà ben discuterne, o no? E poi non è che Millet ce l'abbia solo con africani e maomettani vari, ce l'ha pure con Haruki Murakami, Gabriel García Márquez, Michel Houellebecq (questa non l'ho capita) e soprattutto con Umberto Eco che accusa di «insignificanza pomposa», espressione che condivido in pieno perché l'unica volta che sentii parlare il romanziere-semiologo, a una conferenza bolognese, mi sembrò proprio così, insignificante e pomposo. Secondo Millet la nuova versione del Nome della rosa, riveduta e semplificata e quindi con meno filosofia e meno latino, meno citazioni e meno digressioni, «appartiene a quella zona dove la postletteratura incontra la sotto-letteratura storico-occultista anglosassone firmata Dan Brown e compagni». Accidenti.
E Breivik? All'inizio delle pagine dedicate al terrorista, Millet mette le mani avanti: «Vorrei fosse chiaro che non approvo gli atti commessi da Breivik il 22 luglio 2011, in Norvegia». Forse non basta perché più che atti furono attentati, bombe e sparatorie che a Oslo e dintorni causarono la morte di 77 persone, in buona parte giovani di sinistra accusati di favorire l'immigrazione musulmana. Va bene la polemica ma alla luce di tanto sangue credo che il polemista avrebbe dovuto risparmiarsi la parola «elogio», per quanto mitigata dall'aggettivo «letterario». Però l'analisi è più seria del titolo, descrive il disagio dei popoli europei costretti ad assistere al continuo svilimento dell'idea di nazione, alla criminalizzazione del patriottismo, vivendo sul ciglio «di un abisso identitario che crudelmente enfatizza il fatto di vivere la fine di una civiltà». Anders Breivik «è quanto si dovranno aspettare le nostre società che continuamente s'accecano per meglio rinnegarsi».


Insomma Millet è un pamphlettista virulento che esprime idee sensate in modo sgradevole. Come quando alla radio pubblica disse: «Chi alla terza generazione continua a chiamarsi Mohammed per me non può essere francese». Nemmeno italiano, penso io, ma non so se è ancora lecito dirlo.

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