L’Italia unita? È una creatura di Napoleone

Tornano dopo oltre un secolo le "Memorie" di Bonaparte sulla campagna nella Penisola

L’Italia unita? È una creatura di Napoleone

«Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto: e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia». Iacopo Ortis, alias Ugo Foscolo, apre così la sequenza delle sue ultime lettere: la data è l’11 ottobre 1797, il luogo è sui colli Euganei, prima tappa dell’esilio. Qualcuno lo ha tradito, costringendolo a far fagotto dalla sua Venezia. Il fedifrago è Napoleone, all’apice della campagna d’Italia. Era stata una scorreria travolgente scattata dalle coste liguri, una batosta dopo l’altra a savoiardi e austriaci, sui campi di Montenotte, Lodi, Arcole.
Il generale Bonaparte, nelle vesti di plenipotenziario della repubblica francese, era pronto a far firmare agli imperiali il trattato che i patrioti della Serenissima avrebbero poi deprecato come della vergogna e della perfidia. Il testo passò alla storia come «pace di Campoformio»: un’astrazione della diplomazia, perché quel pugno di casupole, tra Passariano, quartier generale dei francesi, e Udine, residenza del conte Cobenzl, firmatario per l’aquila bicipite, non aveva sedi adatte a un protocollo di tale livello. Era solo un punto sulle mappe, dichiarato neutrale per convenzione dei contraenti. Napoleone strappava all’Austria per la sua Francia il Belgio e la «sponda dell’Adige», cioè la ricca e popolosa Padania; in cambio, regalava a Vienna la città dei Dogi, che così perdeva un’indipendenza millenaria. Se Iacopo avesse potuto entrare nella testa del Bonaparte, e decifrarne il machiavello politico a lunga gittata, non si sarebbe deterso le lacrime, ma avrebbe coltivato qualche speranza in più, e forse non si sarebbe avvitato nella depressione.
Oggi disponiamo di un magnifico documento per fare un po’ di dietrologia, e interpretare più chiaramente i piani ideali del futuro Empereur. Si tratta di Le memorie della campagna d’Italia, di Napoleone Bonaparte (Donzelli, pagg. 334, euro 32), dissepolte da un oblio centenario, primo atto di una trilogia che continua con gli analoghi scritti sulla spedizione in Egitto, e si chiude con i commentari dell’Elba e dei Cento Giorni. Nella visione dinamica ed eversiva di Napoleone, Campoformio non è un atto tombale: è una mina libertaria, il detonatore di una riforma dei popoli incuneato tra i ruderi dell’antico regime, in vista di un mondo nuovo. Ogni rivoluzionario vero dovrebbe capirlo. Della repubblica veneta, il vincitore non aveva stima: aristocratica, immobilista, smidollata. Il suo colpo di spugna avrebbe cambiato le carte in tavola. «I diversi partiti che dividevano Venezia sarebbero scomparsi: aristocratici e democratici si sarebbero uniti contro lo scettro di una nazione straniera» profetizza lo statista. E continua «non c’era più da temere che un popolo dai costumi cosi dolci potesse mai affezionarsi a un governo tedesco, né che una grande città commerciale, potenza marittima da secoli, si legasse sinceramente a una monarchia estranea al mare e priva di colonie».
Poi lo sguardo si apre ai destini di tutta la penisola, che a quel tempo era un’arlecchinata di staterelli divisi e riottosi. Napoleone, con incredibile anticipo, vede un’Italia unitaria. «Se mai fosse giunto il momento di creare una nazione italiana - scrive - la cessione di Venezia non sarebbe stata affatto un ostacolo: gli anni che i veneziani avrebbero passato sotto il giogo della casa d’Austria li avrebbero portati ad accogliere con entusiasmo un governo nazionale...». Carbonari e fautori del risorgimento sono di là da venire, ma l’uomo di Aiaccio già vede un tricolore che sventola sullo stivale, dalle Alpi al tacco. «I veneziani, i lombardi, i piemontesi, i genovesi, i parmigiani, i bolognesi, i bergamaschi, i ferraresi, i toscani, i romani, i napoletani, avevano bisogno, per diventare italiani, di essere disgregati e ridotti in elementi; occorreva, per cosi dire, rifonderli». Un piano drastico, un pensiero prematuro di mezzo secolo. Quello che Bonaparte non sapeva - e che tanti politici suoi successori avrebbero constatato a loro spese - era che «fare» gli italiani, ma soprattutto governarli, era un’impresa più che difficile: impossibile. Ma frantumare per ricostruire era il suo stile. Ne è simbolo ciò che accadde da Cobenzl.
Il testo di Campoformio era già in carta, ma gli austriaci tiravano per le lunghe sulla firma. Sul tavolo delle riunioni spiccava un cabarè di porcellana, dono dell’imperatrice Caterina al padrone di casa. Napoleone lo scaraventò sul pavimento, che si coprì di cocci. «Ventiquattrore di tempo - tuonò - poi parlerà il cannone», e uscì dalla sala già dettando agli ufficiali i preliminari d’attacco. Il giorno dopo, 17 ottobre, la tempestiva ratifica. Questo piglio innerva la prosa delle Memorie. Bonaparte le dettò a quattro fidi evangelisti nell’eremo di Longwood, nella sonnolenta Sant’Elena, dove costruì un impressionante opificio dei ricordi storici. La scrittura è millimetrata con il compasso, il calibro e il cronometro, gli strumenti con cui aveva pianificato le vittorie sulle carte militari e sul terreno. Vi è insita una retorica così spontanea e smisurata che si mimetizza. La si coglie solo nelle allocuzioni ai soldati: ma è l’ingrediente naturale dell’enormità. Le notazioni geografiche (controllate sulle migliaia di libri che formavano la sua biblioteca da campagna) non sfigurerebbero sui testi didattici di oggi. Tutto in terza persona: Napoleone fece, Napoleone disse. Un richiamo a Cesare, idolatrato come stratega e comunicatore.


«La vita o si scrive o si vive», disse Gabriele D’Annunzio. Non è vero. Il còrso impugnò scettro e penna: il primo per il tempestoso presente, la seconda per i posteri, per piegarli a una sentenza di gloria e di grandezza.

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