«L'Armata» è un bel libro (ma ricorda «Lady Oscar»)

«Léo pensava che tutta la maledetta Parigi era lí ad assistere al grande spettacolo, di cui si sarebbe parlato per secoli, e lui non aveva un posto nemmeno in loggione».
Il grande spettacolo che si perde Léo, attore teatrale infiammato dal mito di Goldoni, è la decapitazione di Luigi XVI, il palcoscenico quello della Storia. Si consolerà amoreggiando in un androne lontano dalla piazza, con un'attrice conquistata grazie all'esaltazione del momento, la testa persa fantasticandosi di fronte al boia «Tump. Un bel suono secco, da far rinculare la testa nelle spalle, come si fosse tartarughi… un boato e un zullo di cappelli in aria».
I Wu Ming ci calano nella Parigi rivoluzionaria con lo stupore e il voyerismo dei cittadini di allora, facendoci sentire il palpitare (e il puzzo) della folla, come fossimo fans prossimi alla sbronza sul prato di un concerto allo stadio di Vasco Rossi. Certo, lo sguardo del collettivo dei famosi anonimi bolognesi, rappresentati dal re degli agenti letterari italiani, Roberto Santachiara, è per forza di cose improntato allo spirito di Occupy Wall Street, e racconta la Rivoluzione come una specie di Occupy Parigi.
In realtà, le spinte profonde che portarono il Terrore al potere («con la lama che non fa manco in tempo a rialzarsi e già ricade») furono il risultato di una somma di tentativi rivoluzionari della borghesia, cui spettava il compito storico di liberarci delle anticaglie del potere aristocratico e traghettarci nella modernità: l'esatto opposto della lotta in difesa di miopi privilegi dei No-Tav della Val di Susa.
Per fortuna, al di là delle forzature di marketing, per compiacere una fetta del loro pubblico, nelle 800 pagine de L'armata la trama è solida, la lingua brillante e veloce. Con quale maestria è descritta la protagonista femminile, la sarta Marie: «Petto coccardato, fianchi forti. Ti fa pensare all'amor di patria che le faresti se riuscissi a valicare la trincea di ferraglia per scambiare con lei il bacio fraterno dei repubblicani». Per non parlare del pathos, «La monarchia si fondava sul diritto di sangue, dunque era il sangue che andava versato», e del realismo con cui è messo in scena «il teatro vivente della rivoluzione», interpretato da plebei con nasi «abominevoli». Oltre alla Storia, e al sesso, l'utopia medica dell'illuminismo, incarnata da d'Amblanc, medico romantico a caccia di un rimedio universale contro tutte le malattie. Finirà in lotta contro i licantropi reazionari della Vandea, sulla scia di uno spettro che si aggirava per l'Europa di fine Settecento, il mesmerismo. La rivoluzione francese emerge in tutte le sue contraddizioni come la soluzione politica di un conflitto fra sistemi economici inconciliabili: quello che si fondava sul servaggio della gleba e il moderno capitalismo che dura ancora oggi, fondato sul lavoro salariato. Il fenomeno che oggi abbraccia i Paesi emergenti, masse di contadini che, abbandonati i campi, entrano a far parte del proletariato urbano, precipitando nella modernità, partì da lì, diffondendosi come un virus benefico in tutto il mondo, lo scintillante brillio sulla punta delle baionette dell'esercito napoleonico, molto più concrete di qualsiasi fantasma.
Forse involontariamente, quello che Repubblica definisce «quartetto di scrittori bolognesi marxisti anarchici libertari» (per un vero marxista, «libertario» sarebbe un'offesa mortale) ha dato vita a un bel romanzo, e non un brutto comizio politico.

L'Armata ricorda cartoni animati tipo Lady Oscar, l'atmosfera ludica dei moschettieri del re di Dumas, serie tv tamarre e spettacolari come Spartacus o The Borgias. E i Wu Ming, loro malgrado, sembrano più abili storyliner hollywoodiani che un collettivo no global.

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