L'economista Piketty gioca a fare Robin Hood. E resuscita "Il Capitale"

Un saggio cerca di attualizzare la dottrina di Marx. Ma le ricette proposte sono sempre e solo a base di tasse

L'economista Piketty gioca a fare Robin Hood. E resuscita "Il Capitale"

A volte ritornano. Sono passati 150 anni dalla pubblicazione de Il Capitale di Marx e di nuovo oggi ci troviamo a parlare di un libro (Il capitale nel XXI secolo, sarà pubblicato nel 2015 per i tipi di Bompiani) che ne riprende il pensiero, avvalorandone le conclusioni con una copiosa (e noiosa) messe di dati empirici. La tesi sostenuta nel nuovo volume è semplice: il capitalismo è un sistema economico che concentra progressivamente la ricchezza in poche mani ed esaspera le disuguaglianze sociali.
Il Marx del terzo millennio si chiama Thomas Piketty ed è già celebrato in tutti i salotti radical-chic che contano. A sostegno della sua tesi, le evidenze portate dall'autore sono funzionali a sostenere la tesi che quando il tasso di rendimento sul capitale è superiore al tasso di crescita dell'economia il rapporto tra stock di capitale e reddito (misura del grado di concentrazione della ricchezza) aumenta e con esso l'incremento della ricchezza nella mani di pochi privilegiati. Sarà. Il nostro autore nel suo volume trascura però di osservare due importanti fattori che sviliscono fortemente le sue conclusioni.

In primo luogo, gli aumenti in disuguaglianza non implicano che i poveri stiano oggi peggio che nel passato. Una corposa letteratura ha dimostrato come gli aumenti in disuguaglianza siano in larga parte dovuti al fatto che, anche se il famigerato 1% è divenuto molto più agiato nel corso del tempo, il restante 99% ha anch'esso registrato una crescita reale nel potere d'acquisto nei decenni passati. Cioè a dire che se vi sono stati miglioramenti in cima alla piramide, ciò non è avvenuto a spese del 99%. La logica di Piketty è invece fondata su un ragionamento a somma zero: i ricchi diventano più ricchi perché sottraggono ricchezza ai più poveri. La tesi di Marx, in sostanza. In realtà, quasi tutti gli economisti, a partire da Adam Smith, hanno dimostrato che il sistema capitalista fa crescere la dimensione complessiva della torta, così che tutti vedono tendenzialmente aumentare la propria fetta in termini reali. Il sistema capitalistico è più forte del sistema redistribuzionista ed egualitario perché sostiene che il problema della disuguaglianza non si risolve facendo scendere chi sta in vetta, ma facendo salire chi sta alla base. E non attraverso una redistribuzione forzata e robinhoodesca quanto invece con l'apertura della competizione a tutti i livelli, lasciando aperta a chi ne abbia voglia e talento la possibilità di poter scalare i gradini sociali. La controprova sono i sistemi comunisti, dove l'uguaglianza è sì realizzata ma al ribasso. Provate a chiedere a un «povero» se preferisce vivere in un sistema in cui alcuni gli sono molto avanti ma in cui è comunque in grado di vivere bene (e dove gli è inoltre lasciata la possibilità di aumentare la velocità per cercare di raggiungerli), piuttosto che in un sistema in cui chi è avanti è solo un po' avanti, ma dove entrambi sono a un passo dal baratro della sopravvivenza.

Il sistema capitalistico attuale è quello che nelle varie Silicon Valleys del mondo sta consentendo a migliaia di ragazzi di realizzare il proprio sogno di successo e di ricchezza partendo dal nulla. Creando intorno a sé un mondo economico-finanziario che dà da vivere (e bene) a centinaia di migliaia di persone.

Il sistema capitalistico genera rendite? E allora? Vogliamo dimenticare che le rendite sono l'altra faccia del risparmio e che dietro il risparmio c'è quasi sempre il sacrificio? Se questi ragazzi di successo un giorno lasceranno il passo ad altri più bravi di loro e si godranno il frutto delle loro intuizioni e del loro sudore, saranno da considerare dannati rentier da penalizzare?
In secondo luogo, l'analisi di Piketty trascura di considerare che il sistema capitalista produce continui cambiamenti nella composizione della ricchezza dovuti a mutamenti strutturali nelle dinamiche sociali, nella tecnologia e nel prezzo relativo dei beni. A tal fine, consiglio una lettura molto più interessante e attuale di Piketty: The second machine age di Brynjolfsson e McAfee, pubblicato nel 2014 in cui si sostiene che la rivoluzione informatica ha prodotto un'economia che favorisce: il fattore capitale rispetto al fattore lavoro; il lavoro specializzato rispetto a quello generico; le grandi aziende globali rispetto alle aziende locali. L'avanzare impetuoso delle computer technologies ha progressivamente ridotto la necessità di lavoro poco specialistico. E i Paesi che patiscono maggiormente un aumento della disparità di reddito sono quelli in cui il talento individuale è poco coltivato, gli investimenti in tecnologie informatiche contenuti, la propensione al local prevalente. Sembra la fotografia del nostro Paese in cui quindi, non a caso, le disparità sembrano così elevate.

Ma quello che fa maggiormente paura in Piketty è la cura proposta per ridurre le disparità. Aumento della progressività della tassazione (con aliquota massima all'80%!) e introduzione (o inasprimento) dell'imposta sulle successioni. La solita storia che chi produce ricchezza deve essere penalizzato e mortificato, e che sacrificarsi per il benessere dei propri figli sia un peccato mortale.

Attenzione, le conclusioni di Piketty costituiranno un cavallo di battaglia dei nuovi mâitre-à-penser del pensiero corretto, delle “pinepicierne” che ammorbano l'etere da diversi giorni riempiendo la testa degli italiani di impressionanti banalità. Un'avvisaglia inquietante si è già avuta nei giorni scorsi con l'analisi della ricchezza dei primi 10 paperoni d'Italia, la quale equivarrebbe a quella di 500 mila famiglie di operai. Peccato che facendo qualche rapido conto le cose siano leggibili anche così: nel 2012 questi signori hanno dato lavoro diretto a circa 330 mila persone.

Se poi si considerano anche le imposte di periodo e si ipotizza di utilizzarle per semplicità tutte per il pagamento di pensioni (dividendo l'ammontare per 15 mila euro) si ottengono circa 150 mila pensioni. Il tutto senza considerare il lavoro dato ai fornitori di beni e servizi e il contributo al made in Italy nel mondo. Grazie paperoni, per tutto quello che fate per la nostra economia.

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