L'Italia di ieri (e di oggi) vista da una bicicletta

Enrico Brizzi racconta se stesso e il Paese "In piedi sui pedali". Dalla Atala a Pantani, da Moser alle mountain bike tecnologiche

Lo scrittore Enrico Brizzi (Bologna, 1974)
Lo scrittore Enrico Brizzi (Bologna, 1974)

Biografia o ciclografia? Se la seconda parola non esiste, la invento in questo preciso istante per definire In piedi sui pedali (Mondadori, pagg. 158, euro 10), il libro in cui Enrico Brizzi attraverso la storia delle sue biciclette, dalla prima Atala con le rotelle laterali all'attuale mountain bike con le ruote artigliate, racconta venticinque anni di ciclismo, di Italia e di sé stesso. Un libro epico, dunque, di quell'epica domestica (concedetemi l'ossimoro) di cui lo scrittore bolognese è maestro fin dall'esordio. «Gli uomini più importanti di tutti, a sentire gli adulti, erano Pertini, Agnelli e il Papa», così inizia il libro trasportando chiunque non abbia un cuore di pietra nel reame della nostalgia.

Correva l'anno 1978 e un Brizzi poco più che infante dava le prime pedalate sotto lo sguardo compiaciuto di Babbo e quello un po' preoccupato di Mamma, scritti con la maiuscola perché l'autore trasforma in leggenda ogni episodio, pubblico o privato che sia, e la leggenda esclude il minimalismo anche grafico. Prendiamo i campioni di cui racconta le gesta: più che uomini sono «eroi del pedale» e vengono gratificati con un soprannome, quasi un titolo araldico, che li proietta oltre il loro tempo. Primeggiano su tutti lo Sceriffo (Moser) e il Pirata (ovviamente Pantani), entrambi degni di capitolo specifico, e poi, a seguire, con citazioni più brevi, divinità minori quali il Professorino (Fignon), il Diablo (Chiappucci), il Bergamasco (Gotti), il Delfino (Pellizotti)... Quando scrive di sport Brizzi mi ricorda Brera, col quale oltre alle prime due lettere del cognome condivide la tendenza a paragonare partite e tappe a episodi della grande storia: il lombardo quando commentava i derby tirava in ballo la spada di Brenno, il bolognese descrive il duello Moser-Fignon al Giro del 1984 come «una moderna riedizione della disfida di Barletta». E anche questo fa epica, mito, rimpianto.

Nell'agosto del '98 Brizzi si precipitò a Parigi, al traguardo finale del Tour, «per cogliere l'istante nel quale un uomo si trasforma in leggenda». Comprese che a quel punto al Pirata trionfante si poneva il problema di sopravvivere a tanta gloria (sappiamo tutti come andò tristemente a finire). Brizzi comprese Pantani perché anche lui aveva fatto esperienza, sebbene in campo diverso, di applausi travolgenti. Nel '94, a soli vent'anni, era diventato l'autore di uno dei più formidabili best-seller che la nostra editoria ricordi: «Mi sentivo domandare un giorno sì e l'altro anche se il successo della mia attività di giovane romanziere mi avesse cambiato la vita. Puta madre, se l'aveva cambiata! Ancora poche stagioni prima dovevo farmi firmare le giustificazioni dai miei, adesso, invece, ero andato a vivere da solo, giravo l'Italia al ritmo di cinquanta o sessanta presentazioni all'anno e Jack Frusciante era diventato un film». Brizzi è riuscito a sopravvivere forse perché la letteratura non è lo sport (per quanto un romanziere italiano possa essere famoso non sarà mai schiacciato da tante attese come un idolo dei traguardi internazionali), o forse perché ragazzo di buona famiglia che leggeva buoni libri e frequentava buone compagnie (la parrocchia, gli scout, il liceo), o semplicemente perché più saggio: «Ero consapevole di vivere una condizione speciale, e toccava solo a me stabiliare quali occasioni fossero farina del buon Dio e quali crusca del Diavolo». Ciò nonostante, a pagina 126 si intuisce che sarebbe bastato poco perché le cose prendessero la classica brutta piega: «E allora vai di vita spericolata, vai di notti bruciate in fretta nei locali della Riviera».

Erano gli anni dell'amicizia con Vasco Rossi, uno che in bicicletta è difficile immaginarselo, e con molte donne desiderose di far dimenticare anche solo l'idea della castità all'autore di un romanzo di amore platonico, però molto ciclistico e quindi, almeno in questo senso, molto autobiografico: «Arrivare in bici agli appuntamenti con le ragazze, nel corso dei primi Novanta, non era più in auge come ai tempi di Poveri ma belli, né ancora i pedali erano tornati di moda nel segno di un'eleganza fuori dal tempo, come sarebbe accaduto nel nuovo millennio. Lo facevamo solo noialtri peones minorenni privi di un qualsivoglia mezzo a motore...». Il ragazzo Brizzi avrebbe volentieri cambiato la sua Atala da città, «ruote da 28 pollici, telaio nero, parafanghi e carter cromati» con una Vespa 50 tipo quella della canzone degli altrettanto bolognesi Lunapop, mentre il Brizzi uomo non per necessità bensì per passione cavalca oggi una mountain bike color giallo grano, marca Trek, «telaio in alluminio con forcella anteriore ad aria».

Ma con la scelta di un modello simile si è per caso modernizzato, modaiolizzato? Non direi proprio, è rimasto il Brizzi fondamentalmente reazionario e lo dimostra biasimando il più recente fenomeno a due ruote: «Fra i giovani pedalatori urbani è esplosa la moda delle assemblate americane a scatto fisso.

Colorate come caramelle, non smettono di sembrarmi trappole da saltimbanchi per via della loro irriducibile tendenza a confondere una frenata con un decollo». E rimpiangendo, da purista della lingua quale è, il tempo in cui in Italia la mountain bike si chiamava rampichino.

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