«L' umida afa intride/ le terminazione nervose. Risse/ verbali abbiamo intrapreso oziose,/ con rabbia che uccide, per solo/ mezza ghinea,/ anche l'intelligenza di Ulisse/ o la pietas di Enea». C'è tutto Luca Canali, latinista e polemista ieri scomparso, in questi versi di Ruggine, poesia d'apertura di Semplice cronaca (Ladolfi, 2013), racconto acido della sua ultima estate romana. Ne conservo una copia con, a grafia incerta e già malata, l'amichevole saluto. Le sue terminazioni nervose erano intasate dalla depressione, che l'aveva segregato in casa. L'antidoto era il lavoro, quasi compulsivo. Da poeta e narratore, ma soprattutto da cultore della classicità latina, divulgata con fervore dalla cattedra di Pisa e dalla pagina. Impegno duplice. Canali era saggista e storico, attratto dai grovigli di potere e malaffare politico della Roma antica (specchio del marasma attuale), biografo caustico di Cesare e Augusto (un «freddo», un «giovane nato vecchio», lo definì in un pungente studio). Sulla rivista Poesia scrisse a puntate la storia della letteratura latina. Un progetto originalissimo, che attestava la sua fede nel primato culturale e formativo della classicità, purché calata nel contesto odierno. Riversò in manuali e antologie per la scuola la tensione didattica delle sue lezioni. Si batteva contro l'imbarbarimento. «Bisogna fermare Attila», diceva, dove l'Unno era il progetto di cancellare la latinità, le nostre radici, dai corsi di studio.
Ma noi lo commemoriamo come traduttore dei grandi: Catullo, sacerdote dell'eros, l'amatissimo Lucrezio (suo alter ego, visionario e cosmico, in lotta con i fantasmi della mente), il Virgilio del pietoso Enea. Trent'anni esatti fa usciva, in sei volumi, la sua cristallina versione dell'Eneide, una fatica fluida e aderente all'originale, improntata alla massima leggibilità: verso a verso, con ritmo libero, parole di oggi, con l'etica del divulgatore che delle torri d'avorio non sa che farsene.
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