L'appello che Luciano Gallino, Guido Rossi, Valentino Parlato e altri intellettuali hanno lanciato contro l'imporsi di un'unica interpretazione (neoliberale) della crisi è davvero un segno dei tempi. Apparentemente si tratta della riproposizione di vecchie strategie, che denunciano un'egemonia culturale inesistente. Quanti però conoscono questo Paese sanno bene come i fautori del mercato siano da sempre una realtà marginale.
Come ha sottolineato Nicola Rossi nel volume Sudditi, è dai tempi della polemica tra il liberista Francesco Ferrara e il protezionista Luigi Luzzatti che lo statalismo è vincente. Dal colonialismo crispino fino al giolittismo, dall'Iri voluta dal fascismo fino all'assistenzialismo democristiano, quella italiana è una storia di programmazione, redistribuzione, aiuti pubblici. Qualche anno fa si è iniziato a parlare di un «pensiero unico neoliberale» con la mera intenzione di evitare la presenza stessa delle tesi di Hayek, Michael Polanyi o Jouvenel nel dibattito. Ma un loro dominio non si è mai avuto e quella denuncia era di carattere «preventivo».
D'altra parte, chi conosce la lezione di Gramsci sa che non si accumulano due mila miliardi di euro di debito e non si raggiunge una pressione fiscale al 55% senza consenso. Una società a egemonia culturale liberale, che avesse creduto nella proprietà e nel libero scambio, non avrebbe accettato una tale espansione della spesa pubblica.
Ma non si tratta di un problema solo italiano. Il liberalismo classico è stata la filosofia politica maggiormente emarginata nel corso del Novecento, il secolo dello Stato per eccellenza, segnato da ogni forma di interventismo. Non è un caso se uno dei massimi economisti del secolo scorso, Ludwig von Mises, ha sempre avuto difficoltà a ottenere una posizione accademica. In anni nei quali l'ultimo marxista trovava cattedre ovunque, in Europa come negli Stati Uniti, egli si trovò più sopportato che accettato.
È allora a causa di un colpo di sole che ora qualcuno si scopre prigioniero di un Paese dominato dai nipoti di Adam Smith? No. Né si tratta, stavolta, di una semplice operazione di tipo difensivo. Ovviamente, la cultura occidentale è e resta quella. I suoi nomi tutelari non sono affatto schierati a difesa del mercato: da Keynes a Stigliz, da Rawls a Habermas, da Bourdieu a Bauman. Guardate le università, consultate i manuali, intervistate i neo-laureati. Qualcosa un po' è cambiato, certo, e mentre negli anni scorsi - come ricordava ieri Alfonso Berardinelli sul Foglio - «più del cinquanta per cento degli intellettuali occidentali (e parlo dei migliori) si accusavano a vicenda di non essere abbastanza comunisti», oggi non trionfa la lotta di classe, ma la retorica del welfare, della redistribuzione, del salutismo, della democrazia esportata con gli eserciti, delle banche centrali chiamate a porre rimedio alle follie altrui. Il tutto variamente mischiato a ecologismo, teorie della decrescita, egualitarismo. Il marxismo ha perso posizioni, ma i post-marxisti seguitano a inseguire sogni analogamente infausti. Per giunta, l'avversione al liberalismo accomuna la destra e la sinistra, e fino a pochi mesi avevamo un ministro dell'Economia che esaltava l'assolutismo di Colbert contro il «mercatismo».
Nonostante ciò, l'appello di Parlato e Guido Rossi ha una sua logica. E non già perché i fautori dell'intervento pubblico non abbiano modo di trovare un'informazione orientata dalle tesi neokeysiane e dalla rilettura, ad esempio, che ne offrono Paul Krugman e altri. La loro presa di posizione ha senso perché è comunque vero che si va assistendo alla rivincita del «principio di realtà». Si può pure ritenere che il mondo sia solo una costruzione sociale, ma dopo aver sbattuto per tre volte la testa contro il muro è pur vero che qualcuno (mentre avverte dolore al capo e sente scorrere il sangue lungo il volto) inizia a pensare che quel muro non sia solo un nome, ma anche qualcosa di consistente.
La situazione in cui viviamo è così. Nonostante la teoria liberale sia stato spazzata via (quanti tra i laureati in economia hanno incontrato, nelle aule universitarie, i nomi di Carl Menger o Eugen von Böhm-Bawerk?), le sue buone ragioni tornano a trovare una audience nel momento in cui la catastrofe si avvicina. Quale che siano la cultura accademica e gli articoli di fondo, un Paese che si appresta ad abolire le tredicesime dei dipendenti pubblici è portato a capire che, mentre perfino i piccoli imprenditori emigrano in Ticino e in Carinzia, solo un ridimensionamento dello Stato può garantire un futuro.
Nel loro prossimo appello, Rossi e Gallino dovrebbero mettere sotto accusa la realtà stessa.
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